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Operazione Scott-Rinascita contro la 'ndrangheta, la scalata dei “soldati” di Mantella

Ridisegna la mappa dei clan a Vibo la maxi inchiesta “Scott Rinascita”. In città sarebbero tre le ‘ndrine a comandare all'interno di un unico locale: i “Lo Bianco-Barba” attivi nel centro storico e nelle zone limitrofi, i “Pardea-Ranisi” operanti dal Cancello Rosso fino a San Leoluca e i “Pugliese-Cassarola” egemoni nel quartiere Affaccio, alla periferia sud di Vibo Valentia.

Tra “vecchi” boss e “nuove leve” emerge la figura di Domenico Macrì, 35 anni, “Mommo” per i suoi amici, il “Nano” per i suoi detrattori. Da semplice “azionista” dell'ex boss “scissionista” Andrea Mantella (oggi collaboratore di giustizia) è passato ad essere il capo dell'ala militare della ‘ndrina dei “Pardea-Ranisi”. Nell'ordinanza di custodia cautelare che ha portato all'arresto di 330 persone, il suo nome compare diverse volte, addirittura in contrasto con il capo dei capi, il boss di Limbadi Luigi Mancuso. Il gip Barbara Saccà non esita a descriverlo come «aggressivo e pericoloso» oltreché «direttore del sodalizio» e «mandante delle azioni di fuoco». Secondo l'accusa , avrebbe avuto il computo di «individuare i bersagli delle attività estorsive e delle azioni ritorsive volte al controllo del territorio, di gestire e pianificare gli agguati, indicando altresì gli obiettivi da colpire impartendo direttive ed ordini agli affiliati sul comportamento da tenere». Per gli inquirenti sarebbe stato lui a prendere decisioni di rilievo all'interno della 'ndrina e a partecipare a diverse azioni delittuose. I reati contestati vanno dal tentato omicidio ai danneggiamenti fino alle estorsioni (consumate o semplicemente tentate in svariate circostanze).

Da quanto emerge dalle migliaia di carte che compongono l'inchiesta ci sarebbe lui dietro numerose intimidazioni ma anche dietro diverse azioni di fuoco che avrebbero alimentato le tensioni tra due delle tre 'ndrine, i “Pardea-Ranisi” da una parte e i “Pugliese-Cassarola” dall'altra. Sono diversi i pentiti che parlano di “Mommo” Macrì. Tra questi spicca Bartolomeo Arena secondo il quale la “politica criminale sanguinaria intrapresa da Macrì” sarebbe stata condivisa da Giuseppe Accorinti (il presunto boss di Zungri) ma non dal resto del gruppo “in quanto rischiava di incrinare i rapporti dell'intero sodalizio con i Mancuso”.

Una strategia inversamente proporzionale a quella “pacifista” portata avanti dal Luigi Mancuso che era riuscito a trovare un'intesa persino con i Bonavota di Sant'Onofrio. «Ci portava - spiega Bartolomeo Arena - ad avvicinarci ad Accorinti, inviso ai Soriano che erano in quel periodo nostri stabili alleati. Quindi questi “passi” del Macrì ci mettevano in difficoltà». Su Macrì riferiscono in tempi diversi anche Raffaele Moscato che lo inserisce tra i “Pardea-Ranisi” e, soprattutto, il suo “mentore”, Andrea Mantella: «Io, nel corso della mia detenzione a Villa Verde, stavo creando un nuovo gruppo, insieme ai Bonavota e ai Piscopisani, per affrancarmi dai Mancuso e dai Lo Bianco». In uno dei tanti interrogatorio al quale il pentito è stato sottoposto ricorda di aver battezzato, tra gli altri, lo stesso “Mommo”. «Quelli di cui io mi fidavo di più - precisa l'ex boss - erano Salvatore Mantella e Salvatore Morelli, che avevano anche una posizione più elevata nel gruppo, rispetto agli altri. Quello che dava disposizioni era Salvatore Morelli che incaricava questi ragazzi di compiere le azioni delittuose, io non ci parlavo quasi mai con loro».

Insomma, un gruppo di fuoco che agiva seguendo le direttive del proprio capo ma che disponeva al proprio interno di una serie di punti di riferimento, pronti a dare ordini ai giovani, spesso e volentieri vera e propria mano armata della cosca.

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