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Quando i luoghi sono solo comuni

Ammetto che, quando ho saputo del filmato “Calabria Terra mia” di Gabriele Muccino con Raoul Bova e Rocío Muñoz Morales ho avuto una sorta di brutto “presentimento”. Ma siccome appartengo alla categoria di persone che cercano di controllare i pregiudizi e sperano sempre di sbagliare nei propri timori e di potersi ricredere, mi sono accostato con una certa speranza, anche fiducia, a un filmato che in fondo si riprometteva di promuovere la “terra mia”. Dopo quei lunghi interminabili minuti che mi facevano sprofondare nell’imbarazzo più devastante e nello sconforto più acuto, ho dovuto concludere che la Calabria continua ad essere, davvero, “maledetta” nelle costruzioni delle immagini che di lei vengono elaborate, amplificate, anche per responsabilità dei locali e non solo degli osservatori esterni, “ostili”, nemici.

La terra che, dal Cinquecento ad oggi, ha conosciuto una sovraesposizione e una sottoesposizione di immagini, della quale si è detto e si è inventato, nel bene e nel male, anche l’impensabile e l’inimmaginabile, questa volta è risultata vittima di un prodotto, letteralmente, agghiacciante.

Dinnanzi a tale spettacolo, vedendo i social scatenati in un’opera di demolizione o di esaltazione, avevo pensato di alzare le mani, di arrendermi a un salutare silenzio. Il livello del filmato è davvero fasullo, troppo basso, scadente, anche da una prospettiva demenziale, che sconsigliava qualsiasi commento. Solo l’amabile invito a scrivere queste righe mi ha spinto a domandarmi di quale pulsione autodistruttiva, di quale tendenza all’autodenigrazione, di quale vocazione al suicidio siano vittime i politici calabresi e le loro ossequiose élite (naturalmente il tutto ha dei precedenti anche recenti) per riuscire a trasformare anche la bellezza dei luoghi in una sorta di bruttezza da cui fuggire e a trasformare le risorse paesaggistiche di una terra davvero unica in una sorta di cartolina repellente.

Intendiamoci, qui non si pretendeva il racconto della complessità, della terra “bella” e “amara” (ridateci Repaci e anche Mino Reitano), delle sofferte meditazioni di tanti intellettuali, stranieri e del luogo, su una regione di bellezza e di rovine. Ma perché nessuno dei colti e raffinati committenti che hanno visionato il filmato si è preoccupato di eliminare quell’incipit con lui che accarezza le gambe di lei (anche la Calabria è una preda da conquistare?) e che fa un invito addirittura con il verbo sbagliato (un indicativo al posto del congiuntivo)? Intendiamoci, non si vuole dire che la brutta cartolina nasconde sotto il tappeto la polvere, le devastazioni subite dalla regione, le sporcizie delle sue spiagge (altro che mare verde!), le inquietanti incompiute, i letti dei fiumi pieni di carcasse d’auto, le strade impercorribili. Tanto meno si vuole sostenere che un filmato promozionale dovesse ricordare corruzione, malasanità, criminalità che rendono superflue e inutilizzabili quelle bellezze. Si vuole soltanto dire che questo filmato è sbagliato, banale, stucchevole proprio in quanto pretende di sorprendere lo spettatore e di attrarre magari qualche turista.

È sbagliato perché, dopo aver visto uno spot che trucca e falsa, colora e folklorizza anche la bellezza, ogni persona dotata di buonsenso starà alla larga da questa amata e afflitta terra. E perché, dopo aver visto i vecchietti ridotti a macchietta anni Cinquanta e la pubblicità degli agrumi di Calabria, un osservatore un minimo sgamato e che ha visto un po’ di mondo (e magari anche di buona pubblicità) si chiederà: come mai i Calabresi odiano la loro terra al punto da volerla truccare, imbellettare, ridurla a “luogo comune”?

Ieri ho avuto uno scambio privato via whatsapp con Jonny Costantino, scrittore e regista, autore insieme a Fabio Badolato di un lavoro di 11 minuti che si muove in una direzione diametralmente opposta, “Le Corbusier in Calabria”, apparso nel 2009. Ebbene, nel merito della regia da pubblicità e della fotografia da cartolina del filmato, il mio amico Jonny osserva: «La pubblicità è fiaccamente oleografica: la sua vecchiezza (l’artrosi visiva da cui è affetta) è camuffata dall’incongruo svolazzo di droni usati alla tipica maniera dei registi di matrimoni». Parla di «pacchianeria della cartolina», di un « uso dozzinalmente effettistico, dunque snaturante» del colore, da depliant turistico. «Il depliant, in questo caso, è quello di una Calabria glamour (sicilianizzata per giunta) che non c’è, non c’è mai stata, noi lo sappiamo, se non nella testa di chi la Calabria non la conosce». E dopo una serie di critiche anche sulle prove recitative, il mio amico si interroga sui costi di tutto questo «festival della belluria» (che in realtà dura 6 minuti, visto che gli ultimi 2 minuti e mezzo sono occupati dai titoli di coda): «283 mila euro al minuto!». Non trovo parole adatte per dire, oltre ai progetti artistici e culturali di cui parla Jonny, quante scuole, associazioni, musei, biblioteche, ospedali avrebbero avuto vita migliore con questa somma. Non c’è nessuno che si mobiliti per fare restituire ai Calabresi quello che è, se non un furto di danaro, certamente un furto di “identità” e di speranza, lo sciupio e la rapina della bellezza, come aveva raccontato già Alvaro ne “Il ritratto di Melusina”?

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