Nascosti in un “buco” di pochi metri quadrati, sotto terra, dietro un armadio, in un’intercapedine: la storia dei latitanti è piena di nascondigli di questo tipo, con sistemazioni passate negli anni da grotte con brandine a lume di candela ad alloggi un po’ più confortevoli. Sono i bunker della ‘ndrangheta, immancabile contorno di ogni inchiesta antimafia che si rispetti. E spesso oggetto di studio da parte degli indagati, sempre impegnati a realizzarne di nuovi, per ogni esigenza, ancora più difficili da espugnare.
Ai tempi di sequestri di persona, i nascondigli erano anfratti naturali, gli stessi utilizzati per nascondere padrini e compari in fuga. Quando i boschi dell’Aspromonte iniziarono ad essere battuti in lungo e in largo, la “battaglia” con i Carabinieri dello Squadrone eliportato “Cacciatori” si è spostata via via nelle aree urbane. Nacquero i rifugi nascosti all’interno delle abitazioni.
Sotto una scala, all’interno di un muro, con binari scorrevoli o una botola basculante, ingresso meccanizzato o cunicolo scavato a mano, accessibili da un termosifone del bagno o sotto una cella frigorifera: la fantasia degli ’ndranghetisti e di chi li aiuta a costruire i rifugi ha dimostrato spesso di avere limiti. Uno degli ultimi arrestati, a Isca sullo Ionio, nel Catanzarese, è stato Cosimo Gallace, boss dell’omonima ’ndrina di Guardavalle. Era in una stanza celata da una falsa parete sotto una scacchiera. La porta del nascondiglio, collegata a un congegno meccanico, poteva essere aperta esclusivamente ruotando uno dei tre pomelli, quello centrale, di un adiacente attaccapanni a muro.
Nel corso della perquisizione, sono stati rinvenuti e sequestrati soldi, cellulari e un impianto di videosorveglianza con monitor per controllare 24 ore su 24 l’area esterna all’abitazione, tra l'altro dotata di allarme e di cane da guardia di grossa taglia.
La lista dei maggiori latitanti presi nei bunker dal 2008 al 2013
La lista di mammasantissima della ‘ndrangheta in Calabria arrestati nei loro bunker è molto lunga, ma per dare un’idea basta dare un’occhiata a questa lista che copre un arco temporale limitato: dal 2008 al 2021. All’interno ci sono i nomi di pezzi da ’90 delle cosche del mandamento tirrenico e jonico della provincia reggina. Boss rimasti nascosti anche per 18 anni, come Giuseppe Ferraro di Oppido Mamertina, trovato in un bunker scavato in un appezzamento agricolo a Maropati.
- Rocco Gallico, arrestato a Palmi il 24 marzo 2008 nel bunker ricavato dentro la villa di famiglia.
- Antonio Pelle “Gambazza” arrestato ad Ardore Marina 16 ottobre 2008 nel suo bunker.
- Salvatore Coluccio, preso a Roccella Jonica il 10 maggio 2009. Il bunker era nascosto dietro una parete meccanica in un appartamento.
- Saverio Trimboli, a Platì il 13 febbraio 2010 i carabinieri scoprirono 2 bunker di 30 e 25 metri.
- Francesco Pesce, arrestato a Rosarno il 9 agosto 2011. Il suo bunker era stato costruito in un capannone di un'azienda agricola
- Rocco Trimboli, individuato a Platì il 24 aprile 2012: il bunker era nascosto da una botola basculante a pavimento in un appartamento
- Rocco Aquino, pezzo da novanta di Marina di Gioiosa Jonica: il 10 febbraio 2012 scoperto nel bunker ricavato in una mansarda di un appartamento
- Franco Aloi, arrestato il 9 febbraio 2015. Il bunker era sotto una cella frigoriferia di un albero-ristorante Nicola Tedesco, arrestato a Guardavalle insieme a Aloi
- Giuseppe Ferraro, arrestato a Maropati il 29 gennaio 2016 dopo 18 anni di latitanza in un bunker costruito in campagna.
- Giuseppe Crea, arrestato insieme a Giuseppe Ferraro.
- Cosimo Damiano Gallace, preso a Isca sullo Ionio, il 7 ottobre 2021. Il suo bunker era nascosto da una finta parete dietro una specchiera, che si apriva meccanicamente da un pomello dell'attaccapanni.
La fuga in montagna
Anche nell’inchiesta “Eureka” della Dda di Reggio, ultimo blitz antimafia in ordine di tempo, si parla di bunker. È la notte tra il 18 e il 19 dicembre 2019: va “in scena” la maxi-operazione Rinascita Scott della Dda di Catanzaro, la cui eco arriva ovviamente fino alla Locride. E il più classico “tintinnar di manette” mette in agitazione a 360 gradi, anche chi con Rinascita Scott non c’entra nulla, pur avendo evidentemente altri scheletri nell’armadio. In tanti, a San Luca, lasciano frettolosamente le abitazioni per riparare in montagna. «Il movimento anomalo – annotano gli inquirenti – è messo in relazione con il fatto che quella notte circa la metà dei 3.000 Carabinieri impegnati si concentrarono, per raggiungere gli obiettivi, anche nelle caserme del versante jonico ed, in particolare, Roccella Jonica, Locri e Bianco, allarmando, con ogni probabilità, gli esponenti sanlucoti che, temendo un arresto nei loro confronti, si rifugiarono in un luogo ritenuto sicuro». Lassù, in Aspromonte, c’erano sicuramente de bunker pronti all’uso.
Il modello da esportare
Sempre nell’inchiesta “Eureka”, sono riportate alcune intercettazioni Vincenzo Pasquino, arrestato il 24 maggio 2021 in Brasile insieme a Rocco Morabito. E qui salta fuori un particolare curioso. Il broker della cocaina chatta con un amico, il quale afferma che di notte era solito guardare fuori tramite le telecamere, riferendosi, chiaramente, ad un dispositivo di videosorveglianza installato nella propria abitazione che gli consentiva di osservare la parte esterna del fabbricato «al fine di verificare – sottolinea la Dda di Reggio – la presenza delle forze di polizia che avrebbero potuto effettuare installazioni di dispositivi nei pressi dello stabile dove viveva con la sua famiglia».
Ma non è questo l’elemento su cui si focalizza l’attenzione, spostata da Pasquino su un altro fronte: «Se compriamo casa qui mi devi mandare quello che fa i posti compà, che me ne faccio uno bello a casa». Si parla di un bunker, da far costruire in Brasile evidentemente da un uomo di fiducia che arrivi dalla Calabria. Ed è lo stesso interlocutore a rassicurare Pasquino: «Quello subito appena serve facciamo arrivare, lo abbiamo di fiducia a quello».
Il bunkerista della cosca Pesce di Rosarno
Il “bunkerista di fiducia” non è una figura inedita, tutt’altro. Se ne è avuta traccia, forse la più clamorosa, nell’inchiesta sulla morte di Maria Concetta Cacciola, la testimone di giustizia morta dopo avere ingerito dell’acido nell'agosto 2011. «Peppe sta arrivando nel bunker. Io... faccio il bunker!», dice uno dei fermati dell’operazione condotta dal Ros e dai Carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria contro la cosca Pesce.
Lui, il bunkerista, parlando con un altro affiliato, indica l’arrivo di un latitante in uno dei rifugi. Si tratta, scrivono i magistrati, «di un “muratore” a disposizione delle cosche mafiose di Rosarno almeno sin dal 2005», che avrebbe svolto lavori di costruzione e ristrutturazione dei bunker usati dagli affiliati. Quell’intercettazione finì nell’inchiesta della Dda di Reggio Calabria denominata Califfo e grazie a quell’audio gli inquirenti diedero un volto e un nome a quella voce: si trattava di Saverio Marafioti, muratore di Rosarno. L’attività d’indagine di carabinieri e antimafia portò all’identificazione di Marafioti quale affiliato della cosca Pesce con il quale vari indagati si rapportavano per numerose questioni, tra cui proprio la costruzione e ristrutturazione di bunker. La conferma giungeva dallo stesso indagato, in due dialoghi registrati dagli investigatori. Nel primo, Marafioti veniva intercettato mentre avvisava un altro presunto sodale che il giorno dopo il latitante il Giuseppe Pesce si sarebbe spostato in un bunker. Lo stesso buco sottoterra nel quale il giovane boss di Rosarno verrà arrestato il 10 agosto 2011 dopo un anno e mezzo di latitanza.
Marafioti, a fine ottobre, era a conoscenza del sequestro di un pizzino di Pesce all’interno del carcere di Palmi, nonché del contenuto dello stesso, quindi – in evidente stato di agitazione – commentava la vicenda che lo vedeva coinvolto, fornendo così la conferma in merito alla sua esatta identificazione ed al presunto ruolo svolto all’interno della cosca: «A quel cazzone gli hanno trovato un biglietto… mica mio cognato!... Arresteranno a tutti a Rosarno!...associazione».
Così li scovano i "Cacciatori"
Nati il primo luglio del 1991 con sede a Vibo Valentia, in oltre trent’anni di attività i “Cacciatori Calabria” hanno assicurato alla giustizia 310 persone, elenco che comprende chi era destinatario di un provvedimento cautelare e chi si era sottratto a una condanna definitiva.
«Negli anni abbiamo scoperto decine di covi e di bunker – ha raccontato di recente all’agenzia Agi il comandante Ivan D’Errico –. La Calabria ha una morfologia molto particolare e i latitanti hanno sempre sfruttato la conoscenza del loro territorio caratterizzato da zone montuose non facilmente raggiungibili». Si tratta, nella stragrande maggioranza dei casi, di «nascondigli costruiti in modo piuttosto semplice». Nulla a che vedere con gli appartamenti segreti di tre stanze sotto le ville-bunker scoperti in Campania. Resta tuttavia imprevedibile dove si trovino effettivamente i bunker: la fantasia degli ’ndranghetisti e la capacità di trovare nascondigli non ha davvero limiti.
«In Calabria – ha spiegato ancora il comandante D’Errico all’Agenzia Giornalistica Italia – lo sfarzo e il lusso in contesti di questo tipo non esistono. I rifugi sono quasi sempre spogli e ridotti all’essenziale. Sono destinati a ospitare uno o più latitanti per periodi determinati di tempo. Una volta scoperti e smantellati da noi, vengono abbandonati. Hanno tutti accessi molto complicati. Una persona “normale” difficilmente concepirebbe l’idea di andare a vivere lì. Ma chi vuole essere irreperibile ragiona in altra maniera». Ben diverso, insomma, dalla “latitanza dorata” dell’immaginario collettivo.
«Il latitante calabrese nei suoi rifugi ha sempre le stesse cose: una televisione o una radio per essere aggiornato, a volte libri e giornali per leggere, illuminazione ridotta all’osso. Abbiamo trovato armi, qualche volta soldi, ovviamente viveri di conforto. E, caratteristica comune a quasi tutti i covi, immagini e simboli sacri, santini, crocifissi, la Bibbia», ha concluso il comandante dei “Cacciatori”.
La città sotterranea a Platì
Una città sotto la città, scoperta per caso durante un blitz dei carabinieri. Il mondo, nel marzo 2010, scoprì l’esistenza a Platì di una cittadella fatta di cunicoli sotterranei alla quale si accedeva da una botola scovata dai militari dell’Arma in un garage sotto una montagna di detriti. I tunnel erano scavati a otto metri sotto il livello della strada. Dotato di un rudimentale ma efficace sistema di aerazione e impianto luci, il tunnel è alto due metri e largo uno. Alcuni tratti, al momento della scoperta, erano ancora in costruzione. Una parte scendeva 200 metri, ma i lavori erano stati interrotti. Insomma, una vera e propria opera di ingegneria mineraria.
Adesso l'amministrazione comunale vuole farci un museo
«I tunnel sotto Platì stanno per riemergere dal buio e diventare l’emblema di un nuovo futuro dove all’oscurità si contrappone la luce». È quanto ha dichiarato Rosario Sergi, sindaco di Platì, che ha comunicato che la giunta municipale ha inserito nel piano triennale delle opere pubbliche il progetto di riqualificazione dei cunicoli presenti sotto il paese aspromontano che, in passato, hanno registrato la presenza di latitanti di ’ndrangheta e che, grazie ad un finanziamento del “Cis Calabria - Svelare Bellezza”, promosso dal Ministero per il Sud e la Coesione Territoriale, prevede la trasformazione di quei bunker in percorsi d’arte fruibili da tutti. «Siamo passati alla fase operativa – ha aggiunto Sergi – e come amministrazione abbiamo concluso la parte burocratica, adesso tocca la all’ufficio tecnico procedere con gli atti consequenziali e, quindi, dopo gli opportuni incontri tecnici verrà alla luce il progetto definitivo».
Durante il sopralluogo con le Università di Reggio Calabria e di Cosenza che c’è stato nei mesi scorsi, alla presenza anche di don Ennio Stamile, Rettore del Centro di Formazione UniRiMI “Rossella Casini” di Limbadi, e le Associazioni del territorio rappresentate da Piero Schirripa, è stato possibile constatare da un lato che il tunnel è un impluvio collettore di acqua piovana e quindi soggetto a regole di sopralluogo in sicurezza e dall’altro che esso conserva una parte suggestiva della pavimentazione in pietra preesistente e di ponteggi pedonali molto antichi e una fontana. Si pensa perciò di effettuare gli interventi di canalizzazione igienica dei molteplici liberi e abusi scarichi fognari, di canalizzazione separata delle acque piovane, di recupero della antica pavimentazione in pietra e di concentrare gli interventi artistici nelle varie emergenze dei cunicoli abbellendo così tutto il paese e coinvolgendo i vari quartieri nel risanamento e nell’abbellimento. La scheda progettuale è quella iniziale, la messa in sicurezza del Torrente Mastro, per poi incastrare l’illuminazione dei luoghi e saranno individuati dei punti di riemersione dove creare attività di aggregazione, con la costruzione di piccole piazzette e persino un anfiteatro quali punti di riferimento per la comunità, soprattutto per i giovani: «Puntiamo alla riqualificazione dei cunicoli e alla rinascita del paese – ha proseguito il sindaco – e in tutto questo non possono mancare i giovani che, anche grazie al lavoro formativo in corso nelle scuole con la dirigente scolastica Daniela Perrone, sono il valore aggiunto di Platì». Il progetto Cis prevede al momento un finanziamento per 2 milioni e 200 mila euro, che potrebbero anche aumentare, anche grazie al sostegno della Giunta regionale, guidata dal presidente Roberto Occhiuto: «C’è un’attenzione importante verso Platì e gli altri comuni di trincea, come Africo e San Luca – ha concluso il sindaco Sergi – sia in Calabria sia da altre Regioni, da ultimo i vari incontri che si sono sviluppati a Treviso in questi giorni dove molti operatori hanno guardato con interesse ai nostri progetti di rigenerazione sociale e culturale, che potranno divenire un volano per alimentare un circuito produttivo e commerciale che va oltre il brand del “pane di Platì” per aprire prospettive di sviluppo per il territorio».
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