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Apparecchi sofisticati per comunicare: i clan di Cirò speravano di farla franca

I dettagli dell’inchiesta “Ultimo atto” che ha portato all’esecuzione di 31 arresti

Gli affiliati alla cosca Farao-Marincola di Cirò temevano di essere intercettati dalla polizia giudiziaria. E non potendo sempre utilizzare un linguaggio criptico ed allusivo per discutere di «affari illeciti», si munirono di sofisticate apparecchiature elettroniche per stanare e disattivare eventuali microspie che gli inquirenti avrebbero potuto installare nei luoghi da loro frequentati. Vengono fuori anche questi dettagli dalle carte dell’inchiesta “Ultimo atto” coordinata dalla Dda di Catanzaro che giovedì ha portato all’esecuzione di 31 arresti da parte dei carabinieri. Si tratta dell’operazione che ha messo all’angolo le nuove leve e alcune vecchie conoscenze del clan cirotano che si era riorganizzato dopo il blitz “Stige” del 2018. Sotto la lente della Procura antimafia, sono finite le telefonate di Vincenzo Affatato (uno dei “rampolli” finito in manette) che, su incarico dei veterani dell’organizzazione criminale, il 2 marzo 2020 contattò il titolare di una ditta di Reggio Calabria che vende sistemi per “bonificare” gli ambienti da cimici investigative. I due si accordano sul pagamento di 500 euro in un’unica soluzione. Ma, annotano però i pm Paolo Sirleo, Domenico Guarascio e Pasquale Mandolfino, «è singolare come Vincenzo Affatato» avesse voluto «mantenere generica la località dalla quale effettua la telefonata, riservandosi di trasmettere i dati utili per la spedizione solo in un secondo momento, che avverrà verosimilmente attraverso WhatsApp, notoriamente considerato mezzo di comunicazione difficilmente intercettabile».

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