Dall'operazione anti-'ndrangheta Blu Notte, che ha colpito il clan Bellocco, è emerso che un altro settore di importanza strategica è risultato essere quello della spartizione dei proventi relativi allo sfruttamento delle risorse boschive. L’ordinanza riporta a tal proposito una citazione emersa dall’attività d’indagine, che dimostra come i contratti per lo sfruttamento delle risorse montane venissero stabiliti nella sede operativa dei Bellocco: «I contratti delle montagne o si fanno in questa casa o se li fanno a Laureana, siccome io sono delegato pure da quell’altri si fanno in questa casa».
In tale ambito è stato possibile attribuire la «competenza mafiosa» sulle aree montane ricomprese tra il Comune di Laureana di Borrello e quello di Giffone, nonché le relative prerogative di esclusivo appannaggio dei sodalizi Bellocco e Lamari, attuate in forza degli accordi stabiliti circa venti anni prima dagli storici esponenti Giuseppe Bellocco classe ’48 e Carmelo Lamari. Delle imposizioni criminali durate anni ma che via via sono diventate sempre meno tollerate degli esponenti della locale di Giffone.
Le rivendicazioni di questi sono iniziate nel periodo in cui erano stati contemporaneamente latitanti i due boss e la questione mafiosa afferente alla gestione delle montagne era stata demandata, in funzione supplente, a un esponente di spicco della mafia destinatario della misura cautelare.
Gli strascichi della controversia sulla spartizione hanno comportato dei fortissimi momenti di tensione, tanto che durante un summit svoltosi all’interno di un’azienda agricola di Rosarno, la situazione sembrava destinata a degenerare nello scontro armato. Un potenziale eccidio scongiurato dall’intervento effettuato, in diretta dal carcere, dal giovane Umberto Bellocco, che era solito predicare l’unità tra le diverse anime della ’ndrangheta e la pace per tutti i consociati, che era aduso definire «cristiani».
L’intimidazione al cugino assessore (di Domenico Latino)
«Dimmi perché devo pagarli questa immondizia e l’acqua spiegatimi dai … però se tu mi dai una risposta plausibile prima che vengo con un’accetta al Comune».
Era questo l’approccio con cui Francesco Benito Pelaia, cognato del boss Umberto Bellocco cl. 83, si rivolgeva all’agenzia che si occupava della riscossione dei crediti per conto del Comune di Rosarno. In buona sostanza, Palaia pretendeva di non pagare i 3 mila euro che gli erano stati chiesti per la gestione del servizio idrico e della raccolta rifiuti, in quanto nel periodo concernente la contestazione sia lui che la moglie, Emanuela Bellocco, erano detenuti e la sua abitazione non era occupata da nessuno.
La telefonata intercettata dagli investigatori rappresenta una sequenza di minacce, più o meno velate, nei confronti della stessa agenzia e, più in generale, del Comune. Inquietante anche il passaggio nel quale Pelaia dice all’operatore con il quale sta parlando che probabilmente si conoscono («io sto parlando con te come ufficio può darsi anche che ci conosciamo, non so chi sei ma comunque può darsi che ci conosciamo»).
Il 22 agosto 2019 si registra la visita a casa di Pelaia da parte del cugino Giuseppe, assessore comunale con delega ai Lavori pubblici e al Personale, il quale, consapevole del fatto che Francesco Benito si trova ai domiciliari, ben si guarda dal fare ingresso nella sua abitazione parlando con lo stesso dal balcone. Il motivo di tale visita verrà chiarito in una successiva conversazione captata tra Palaia e l’imprenditore Marcogiuseppe in cui il primo racconta di aver ricevuto la visita del cugino e di non aver pagato. Pelaia: «Io ho un cugino che è assessore». Marcogiuseppe: «Sì». P.: «Quello del Comune chiama mio cugino e dice “ma mi ha chiamato un certo, così così, penso che è parente tuo…” l’ha guardato mio cugino: “Hai trovato proprio la persona giusta” gli ha detto». M.: «Ah, per il fatto dell’immondizia”. P.: «Sì, dice: “Ma noi gliela rateizziamo!”, dice: “Se tu gli dici che gliela rateizzi, quello viene qua e ti picchia!”. M.: “Ancora peggio” (ride, ndr)».
Tuttavia, dall’indagine non emergerebbe l’annullamento indebito dell’ingiunzione di pagamento e lo stesso PM evidenzia la mancanza di dimostrazione di un indebito intervento del cugino assessore.
Il 4 ottobre 2019 ignoti esplodono cinque colpi di fucile contro il cancello d’ingresso di un fondo agricolo, ubicato in contrada Badia di Rosarno, di proprietà dell’assessore Pelaia. Anche se non vi sono elementi sufficienti per identificare con certezza gli autori dell’intimidazione, in una nota di PG si riferisce che le responsabilità vanno ricondotte ai suoi cugini Gaetano Palaia, alias “Tano i Nunziatina” e Benito Palaia, fratello di Francesco Benito. Il dato rilevante, però, è che prima di andare a fare denuncia l’assessore si rivolge al cugino Francesco Benito Palaia, al fine di comprendere i motivi dell’accaduto.
In un’informativa del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Gioia Tauro si evidenzia Francesco Benito Palaia continua a mantenere rapporti con i cugini meglio noti come quelli del ramo de “i calimeri”, per via della loro carnagione scura, e cioè l’assessore Giuseppe Palaia. Viene inoltre specificato che la ragione dell’intimidazione rimanda alla confisca dello stabilimento dell’ex fabbrica di canditi, sita in contrada Serricella di Rosarno e intestata a Giovanni e Gaetano Palaia cl’. 46, rispettivamente fratello e padre di Benito e Francesco Benito.
Difatti, in seguito alla confisca, il Comune di Rosarno stava quantificando l’ammontare delle spese di bonifica sulla base del pregresso sequestro da parte dei carabinieri del NOE di Reggio Calabria e aveva reimpiegato l’area destinandola allo stoccaggio di materiali di risulta provenienti dal rifacimento del manto stradale delle vie comunali.
Per questa ragione i cugini dell’assessore nutrivano un forte risentimento nei suoi confronti per non aver curato i loro interessi o meglio, quelli della famiglia Palaia nel suo complesso. In quel contesto il dissenso si poteva manifestare solo in un modo: impugnando le armi.
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