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San Luca, viaggio nel silenzio

«Non pensate voi, dottore, che tutti dovrebbero avere una possibilità? Perché un ragazzo di San Luca non può guadagnarsi i cinquanta euro a fine giornata, e avere una vita dignitosa?».

San Luca ha 3.600 abitanti e un territorio immenso e per buona parte inesplorato. Qui l’Aspromonte è la grande madre, e Polsi la metafora della sua inviolabilità. Un grande utero rovesciato, l’ha definito un venerabile gesuita, il borgo del Santuario, la Madonna della Montagna, irraggiungibile da chiunque non conosca il modo di giungervi, attraverso tracciati impervi che ancor oggi senza alcun titolo usurpano il nome di strada. Servono un fuoristrada robusto e sapienza profonda, per domare pietrose trazzere, scansare bovini di incurante immobilità, sfiorare abissi mortali, che si sono presi più d’una vita, di pellegrini incauti e inutilmente zelanti. Un “cammino” che a Santiago di Compostela se lo sognano – ardue cime da valicare e poi giù a precipizio nella gola, fino al borgo aggrappato ai piedi della montagna – e che al contrario di quello portoghese nessuno ha mai pensato di dichiarare Patrimonio dell’Umanità.

Sulla Madonna di Polsi vigila la venerazione di pochi e scelti devoti. I sanluchesi, ovviamente, quelli di Bagnara, quelli di Santa Cristina. E i “ganzirroti” di Messina, per qualche arcana ragione, persa nella notte dei tempi. Ogni gruppo ha le sue stanze riservate, per trascorrervi la notte, nei giorni della festa, i primi di settembre. E c’è la Casa del pellegrino, perché qui l’ospitalità è sacra, per chiunque venga, rigorosamente a piedi, a implorare una grazia. La statua della Vergine custodita nella piccola chiesa va in processione ogni 25 anni, la prossima cadrà nel 2031. Prima erano 50, è stato il vecchio vescovo, Giancarlo Bregantini, a decidere che erano troppi per una sola vita, e che tutti dovevano avere la possibilità di esserci, per l’incoronazione, la festa più grande e desiderata.

Tutti dovrebbero avere possibilità, una prima e anche una seconda. Ci aveva provato monsignor Bregantini, a darne a profusione, di possibilità, ai piedi della Madonna e anche nella vita vera. Sue le cooperative agricole, sua l’idea del lavoro agli ex detenuti. Aveva provato a sporcarsi le mani, il vescovo, ma di quegli sforzi ben poco è rimasto, nessuna di quelle esperienze si è avuta la volontà di elevarla a sistema, di farne base per una ripartenza. Il “sistema”, qualunque cosa esso sia, le ha rigettate ed espulse, come fossero un tumore.

“La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”. Sebastiano “u sceriffu”, cuoco da urlo, Saverio, Angelo, Ciccio “Haller”, Antonio, infallibile nella caccia al cinghiale, l’altro Antonio, l’altro Sebastiano, Domenico: nessuno ha bisogno di citare la frase più celebre di Corrado Alvaro, per spiegare se stessi e il mondo in cui è toccato loro vivere.

Semmai è lo scrittore di San Luca che vive in loro, e fu la voce dei loro padri, e dei padri dei loro padri. Sono l’ultima generazione di operai forestali, oggi dipendenti dell’azienda Calabria Verde. «Dottore, a San Luca nessuno può aprire un’attività. Se la Regione o la Città Metropolitana aprono un cantiere sapete quanti sanluchesi ci lavorano? Nessuno. Le interdittive antimafia colpiscono tutti. Basta dire il nome e siete fuori, nessuno vi vuole».

Pelle, Vottari, Nirta, Strangio, Romeo, Marmo, Mammoliti, Giorgi, Pizzata: i nomi, qui, sono marchi di fabbrica. Per il mondo intero, marchi di ‘ndrangheta, inutile girarci intorno. I nomi dei grandi traffici di cocaina e dei campi di canapa indiana. I nomi dei killer di Duisburg, e dei morti ammazzati per vendetta. Li portano anche molti di loro, i forestali, ma tanto la Regione non fa assunzioni da decenni, e quando, presto, tutti loro saranno in pensione, le piste dell’Aspromonte non le manterrà percorribili nessuno. O forse qualche volontario si troverà, tra cacciatori e cercatori di funghi, chissà.

Una bella parola, volontariato. Evoca gesti nobili e disinteressati sacrifici. Da queste parti, nella Locride più emarginata, volontari si dicono anche i fruitori di prebende, talmente risicate da rasentare l’elemosina. Poche migliaia di euro elargiti ai Comuni per servizi di protezione civile, o cura del verde, o del decoro urbano. Cinquecento euro al mese, spesso per un anno di nullafacenza, solo in cambio di qualche voto. Perché qualunque cosa è meglio del nulla, per chi non vuole, o non può, mollare tutto e andar via.

A San Luca, porta dell’Aspromonte più bello, selvaggio e incontaminato, non esiste un albergo, un B&B, una stanza in affitto. Nulla. Poche botteghe, qualche pizzeria, case basse e strade scoscese, come serpentine sinusoidi. Su un motorino nuovissimo sfrecciano due ragazzini senza casco. Quello che guida non può avere più di dodici anni, lo diciamo al sindaco Bruno Bartolo, che allarga le braccia. Settantuno anni, infermiere in pensione, siede in municipio sol perché lo scorso anno quel matto di Klaus Davi, giornalista e abile massmediologo mezzo svizzero, mise insieme una lista e si presentò alle elezioni, altrimenti destinate a fallire, visto che la gente aveva optato per il commissariamento a vita.

Tanto, al primo appalto ci sciolgono per mafia – pensavano tutti, e come dargli torto. La lista di Bartolo non poteva che chiamarsi con un nome di battaglia – “San Luca ai Sanluchesi” – ma Davi prese 137 voti, neanche pochissimi, e da consigliere di minoranza ha dimostrato quanto meno un infaticabile attivismo. Di lui, il forestiero, la gente parla con un misto di testardo affetto, come si fa con un figlio incredibilmente duro di comprendonio, e di amareggiata e un po’ velenosa rassegnazione: tanto, oggi c’è, domani non ci sarà più, e chi si è visto è bravo. Del resto un tizio, omosessuale a viso aperto, che si apposta sotto casa dei boss per intervistarli o anche solo per chiedergli conto dei loro delitti, non è che qui non si fosse mai visto, molto di più, era proprio difficile concepirlo come idea astratta. Grande Klaus.

Da primo cittadino, Bartolo gioca l’unica carta possibile: la soluzione dei problemi. «Ho parlato col prefetto – dice – mi ha raccomandato di spedire alla Regione l’elenco delle priorità più urgenti, eccolo qui». Ordinaria amministrazione ovunque, qui è peggio del cammino di Polsi, montagne da scalare a mani nude: rifacimento di strade e fogne, 1,5 milioni per un cimitero che l’erosione si sta portando via, una viva raccomandazione da inoltrare anche alla MetroCity per la fiumara Bonamico («molte case stanno sotto il livello, si rischia un altro Vajont»), qualche spicciolo per riaprire la scuola materna inagibile, 50 mila euro per la Fondazione Corrado Alvaro, che ha le casse vuote ed è ridotta al silenzio.

E poi, il problema dell’acqua, roba da teatro dell’assurdo: «C’è il Menta che dà acqua minerale purissima – dice Bartolo – e arriva in paese per caduta, a costo zero, come anche a Benestare e Bovalino ma l’acquedotto è da riparare, in certi tratti ci si fanno il bagno i cinghiali. Con un milione lo mettiamo in sicurezza e potenziamo, acqua per tutti al costo minimo e magari così riusciamo pure ad evitare il dissesto».

La richiesta di elemosina è partita, e si resta in attesa della convocazione di sua eccellenza il prefetto: poi starà tutto alla volontà, o alla mancanza di volontà, della politica. Sullo sfondo, la questione della strada di Polsi, una strada vera: 20 milioni già stanziati a Catanzaro, c’è tempo fino a tutto il 2021 per l’appalto, pena la perdita del finanziamento. Finora solo promesse, forse si attende che tutti gli astri entrino in congiunzione.

San Luca, la Madonna della Montagna, l’Aspromonte. Un paese conosciuto nel mondo solo come una delle capitali mondiali della ‘ndrangheta. Un Santuario venerato che però entra in decine di atti giudiziari con la dicitura “Crimine di Polsi”, la presunta testa della piovra, i pupari di tutti i clan calabresi, in Italia e nel mondo. Un massiccio montuoso di bellezza assoluta, ma da ammirare solo in cartolina, evocato in letteratura e cinematografia solo come covo di banditi e prigione di sequestrati.

Gli ultimi operai forestali, pure loro hanno una brutta fama e lo sanno ma è per i loro figli e nipoti che parlano: «Potete crederci, dottore, la maggior parte dei sanluchesi sono brave persone, limpide come l’acqua di quella fontana. Vorrebbero solo lavorare onestamente, e guadagnarsi il pane. Oggi questo è impossibile. Materialmente impossibile». Ma sono voci storicamente senza eco, perse nel silenzio dell’Aspromonte: giornali, televisione, cinema tutto per loro è ostile, nemico, remoto. Un intero paese crocifisso, non innocente vittima di un carcere senza redenzione, una marchiatura a fuoco, un ergastolo di imprescrittibile e umiliante definitività. Dall’altra parte di questo silenzio, lontano come una chimera, c’è lo Stato.

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