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Le 2 cosche di Cosenza e il figlio "traditore" degli zingari: nomi e foto dei 18 arrestati

L’«infame» della famiglia. Celestino Abbruzzese, condannato con sentenza definitiva a 13 anni e 4 mesi di reclusione per traffico di droga, è un altro dei cosiddetti “figli traditori” fuoriusciti dalle file della criminalità organizzata calabrese.

Lui, però, al contrario di Emanuele Mancuso, figlio di Pantaleone detto “l’ingegnere” di Limbadi; Giuseppe Giampà, di Lamezia Terme, figlio di Francesco inteso come “il professore” e di Francesco Farao, figlio di Giuseppe, re del Cirotano, non viene dalla ’ndrangheta ma dalla criminalità nomade.

È il primo tra i cosiddetti “rampolli d’arte” degli zingari a saltare il fosso. Una scelta che ha fatto lo scorso anno incontrando il pm antimafia Camillo Falvo e il procuratore Nicola Gratteri. E la decisione di “cantare” non l’ha presa in solitudine ma in compagnia della moglie, Anna Palmieri, pure lei condannata con sentenza passata in giudicato a dieci anni di reclusione per smercio di stupefacenti.

“Micetto” – così lo chiamano – non si è pentito solo per convenienza ma pure con convinzione visto che accusa tutti i suoi familiari. Figlio di Fioravante Abbruzzese, conosciuto come “banana”, condannato a 25 anni di galera per omicidio nell’ambito del maxiprocesso “Timpone rosso”, il collaboratore di giustizia ha pure due fratelli costretti a scontare pene definitive: Armando, 25 anni e Antonio 12.

È lui, tuttavia, a parlare degli affari della famiglia, dei rapporti mantenuti con le cosche tradizionali rette da Roberto Porcaro (coinvolto ieri nel blitz con 18 arresti a Cosenza), con i “cugini” di Cassano e Sibari che portano lo stesso cognome ed hanno in Franco Abbruzzese, inteso come “dentuzzo” il loro capo carismatico. Il pentito parla pure d’un fratello che coltiva la passione per il canto, Franco, 46 anni, detto “A brezza” o, appunto, “il cantante”, interprete neomelodico in salsa calabrese.

Ai magistrati, per lasciare il carcere e accedere al programma di protezione, è costretto a dire tutto quello che sa. E per il gruppo dei “banana” sono guai seri. «Mio fratello Luigi e mio cognato Antonio sono quelli che investono i soldi» dice ai pubblici ministeri «e comprano le grosse partite di droga. I soldi vengono gestiti da Luigi (suo fratello e capo ndr) e da mio cognato che ogni settimana danno dei soldi ai miei fratelli Marco e Nicola, poi a fine mese, tolte le spese anche dei carcerati, si dividono quello che resta».

La moglie, Anna, rilancia: «L’eroina a Cosenza deve essere acquistata per forza dai fratelli Banana altrimenti si rischiano ritorsioni; la cocaina e l’erba si può invece prendere anche da altre parti». La donna aggiunge pure: «Tutti i pusher che lavoravano per me e mio marito a Cosenza Vecchia, oggi continuano a spacciare per i fratelli Banana: Luigi, Nicola e Marco Abbruzzese e il cognato Antonio».

La Palmieri parla dunque dei germani del coniuge senza veli lanciando accuse che si riveleranno fondamentali per far scattare il blitz di ieri. “Micetto”, durante una delle sue deposizioni, lascia trapelare un pizzico di orgoglio di appartenenza: «Noi fratelli Banana» dice «abbiamo sempre camminato armati dentro Cosenza se c’era qualche cosa da fare...».

È sempre lui a confermare il coinvolgimento del consanguineo Marco nell’omicidio di Luca Bruni, “reggente” dell’omonimo clan ammazzato, il 3 gennaio del 2012 a Rende. «Parenti serpenti» recita un vechio adagio.

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