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Tragedia di Cutro, l’Europa al crocevia: i muri non risolvono

Lo strazio all’alba. Sulle coste della rotta “sottovalutata”. Che prende il largo da un Paese strategico nel mosaico delle alleanze occidentali: la Turchia di Erdogan, mediatore della prima ora tra Putin e Zelensky, presidio della Nato tra Russia e Medio Oriente, fautore – con l’Onu – dell’intesa sul grano “sequestrato” nei porti del mar Nero. Tuttavia, “distratto” leader di un Paese dai cui porti salpano migliaia di disperati in fuga da guerre e torture su barche assassine timonate per lo più da scafisti russi e ucraini. Abbiamo, vanamente, interloquito con Libia e Tunisia. Non ancora, e non abbastanza, con Erdogan, alleato dell’Occidente.
L’Europa è al bivio. E non è una questione di equilibri geopolitici o economici, ancor meno di ordine pubblico, come pure taluni sostengono. È un bivio politico, culturale, umanitario. Una parte del mondo, la più disperata, pressa sull’altra parte, opulenta e sazia. Solo la “contingenza” geografica porta a riversare la pressione sulle coste siciliane e calabresi, dove la mobilitazione di istituzioni, organizzazioni solidaristiche, enti locali e popolazioni è straordinaria. Ma non può bastare per porre argine a un fenomeno inarrestabile. Antico come l’umanità, che si muove sull’onda di guerre e carestie. Un fenomeno che quindi va governato. Non è solo un problema italiano, è una questione europea, come ha ribadito il presidente Mattarella. Quell’Unione che per anni ha fatto finta di non vedere cosa stava e sta accadendo sulle coste meridionali.
Eccolo, il bivio. Perché in mare non si possono costruire muri. E laddove si costruiscono è la sconfitta dell’umanità. I muri sono già ampiamente realtà. Secondo un documento pubblicato dal Parlamento Europeo, a fine 2022 si contavano 2.048 chilometri di barriere ai confini Ue in 12 Stati membri, nel 2014 erano appena 315, nel 1990 zero. A dare l’esempio è stata la Spagna, che tra il 1993 e il 1996 ha realizzato 20,8 km di recinzione intorno alle sue “exclave” in Marocco di Ceuta e Melilla. Pochi anni dopo è stata la Lituania a costruire barriere (71,5 km) con la Bielorussia già tra il 1999 e il 2000, dunque prima di entrare nell’Ue (muri poi “ereditati” dall’Unione). In seguito alla crisi dei profughi “inviati” da Minsk in Europa, la repubblica baltica ha ampliato la recinzione a 502 km. E come non citare i 37,5 km di barriera (con pali d’acciaio alti cinque metri) al confine tra Grecia e Turchia lungo il fiume Evros? Atene ha già annunciato che costruirà altri 35 km. Anche la Bulgaria ha eretto al confine turco una recinzione a partire dal 2014, che oggi conta 235 km. In questo quadro si innesta l’Ungheria, che tra il 2015 e il 2017 ha costruito 158 km di recinzione al confine serbo e 131 al confine con la Croazia (oggi membro Ue e di Schengen). Muri li troviamo anche ai confini esterni in Polonia, Estonia, Lettonia, in Francia all’imbocco del tunnel della Manica, e in Austria che nel 2015 ha “innovato”, costruendo la prima recinzione (3,7 km) al confine con uno Stato Schengen, la Slovenia.
I muri insomma crescono e molti Stati membri vogliono che a finanziarli sia l’Unione europea. Inaccettabile. Altro deve fare Bruxelles. Avocare la gestione dei flussi, promuovere politiche bilaterali con i Paesi che generano le migrazioni più massicce. La partita più complessa non si giocherà con gli Stati del Nord Africa, ma con Afghanistan, Iran, Pakistan. Non saranno i muri o gli inapplicabili blocchi navali a fermare la disperazione. Servono ponti, interlocuzione politica su vasta scala Serve l’Europa, sfrondata dagli egoismi.

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