La ’ndrangheta e quei figli “traditori”. Anzi, redenti. Il nuovo saggio di Arcangelo Badolati
Se genitori, fratelli, zii e cugini invece di essere la famiglia formano la “famiglia” con le virgolette, ne consegue che considerare certi figli traditori oppure “traditori” dipende solo dal punto di vista: quello della cosiddetta normalità o, all’opposto, l’altro della mafiosità e, in particolare, della ’ndrangheta calabrese. Un esempio di valori al contrario in un mondo considerato chiuso e impenetrabile e che, a poco a poco, ha mostrato cedimenti a lungo impensabili. Uno dei motivi principali di questa imprevista (dai boss) “friabilità” è proprio quello dei «Figli traditori» (sottotitolo: «I rampolli dei boss in fuga dalla ‘ndrangheta», Pellegrini Editore), il nuovo libro di Arcangelo Badolati, giornalista caposervizio della Gazzetta a Cosenza, che i nostri lettori conoscono bene e che è uno dei massimi esperti attuali di criminalità organizzata, autore di oltre venti pubblicazioni sull’argomento. Il volume – con prefazione dello scrittore e docente Antonio Nicaso e un intervento del sociologo Ercole Giap Parini, direttore dei Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell'Università della Calabria – traccia una vera e propria storia, documentatissima e ricca di particolari tratti da un’attentissima lettura di atti giudiziari, di quello che è un fenomeno recente (a parte qualche eccezione come quella di Pino Scriva negli anni Ottanta), ma che già conta almeno una ventina di casi eclatanti. Nello stesso tempo va avanti anche la grande iniziativa del giudice Roberto Di Bella che, con il protocollo “Liberi di scegliere” ha dato la possibilità a ragazzi e ragazze, spesso sostenuti dalle madri, di sottrarsi a un giogo ereditario, ancor prima di doverlo fare nel ruolo di pentiti, ovvero collaboratori di giustizia. «Pensano a loro stessi, fottendosene degli altri. Tu ti abbuffi di galera e loro ingrassano», raccontò il discusso Scriva a proposito dei capiclan, e questa verità è diventata oggi tanto più insopportabile per una generazione non più abituata alla vita “rustica” e senza comodità di quelli che pure erano ricchi boss e che ora vive agiatamente anche lontano dalle origini, grazie alle ramificazioni, tra l’altro, in Lombardia e Piemonte. A giovani le cui motivazioni sono già vacillanti e che, nell’era dei social, trovano del tutto anacronistici certi riti e certe gerarchie tra “famiglie”, e per cui la galera risulta insopportabile. Si trovano a fare i conti con la loro vita spezzata, senza quegli “ideali”, falsi e imposti da tradizioni che ormai possono anche sfaldarsi, che imponevano il silenzio come regola infrangibile di onore. Badolati racconta una ventina di storie e, con la sua competenza, le arricchisce con una profonda conoscenza della vita delle cosche e della loro evoluzione dalle campagne alla droga, agli affari e alla finanza. Ma soprattutto coglie le profonde motivazioni di questi pentimenti di figli di boss, cioè di appartenenti a famiglie, dove si diventa mafiosi «per diritto ereditario» e in cui ancor oggi non ci si aspetta il «tradimento». Colpisce la storia di Domenico Agresta, esponente in Piemonte del clan di Platì e pentito dal 2016, che nel carcere di Saluzzo si iscrive a scuola e scopre la cultura, s’innamora di Dante e della “Divina Commedia”, tanto da impararne a memoria intere parti, e da esse trae la forza per persistere nella sue rivelazioni ai magistrati. E ci sono storie di donne, come quella famosa di Giusy Pesce, che dal 2010 a Rosarno, tra alti e bassi, riesce a liberarsi dalla “famiglia” per ricostituire quella sua, vera, con le figlie e un nuovo amore. Qui Badolati spiega benissimo qual è stato ed è il ruolo delle donne nella ‘ndrangheta, destinate a essere «custodi dei disvalori mafiosi», ma adesso capaci di costituire anche quella nuova generazioni di madri che ha scoperto il protocollo del giudice Di Bella. Oltre ad Agresta, Badolati racconta le vicende intense (con momenti da thriller) di «Giuseppe Giampà, figlio di Francesco detto “il professore”, padrino di Lamezia Terme; Francesco Farao, figlio di Giuseppe, capobastone di Cirò Marina; Dante Mannolo, figlio di Alfonso, mammasantissima di San Leonardo di Cutro; Emanuele Mancuso, figlio di Pantaleone, inteso come “l’ingegnere”, esponente di spicco dell’omonimo clan di Limbadi; Celestino Abbruzzese, figlio di Fioravante, capo carismatico della criminalità nomade di Cosenza; Gaetano Aloe, figlio di Nick, primo vero leader della ’ndrangheta di Cirò Marina; Antonio Accorinti, figlio di Nino, capobastone di Briatico». Sono i nomi di quella che l’autore definisce l’ultima ondata di pentitismo in Calabria. Ne seguiamo il mondo interiore, la scoperta delle loro contraddizioni, lo scontro tra voglia di verità e persistenti affetti familiari, i momenti di debolezza e quelli di forza, le personalissime necessità di «riscatto personale e di salvezza». Badolati giustamente scrive che si tratta di «un filo che ci induce a definirli piuttosto che “traditori” dei figli redenti». Sta tutto lì, lo scarto tra i mondi.