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"Ricordatevi chi siamo stati...". Mimmo Gangemi racconta l'odio d'America per gli italiani

Una grande saga familiare nell’America del jazz e del razzismo contro gli italiani. Con grande amore per il Sud e un linguaggio crudo e potente

«Gli italiani che hanno costruito l’America ad inizio Novecento sono stati odiati. Non erano bianchi e non erano neri. È doloroso notare che oggi accogliamo i migranti con quella medesima rabbia che veniva riservata ai nostri avi. Purtroppo, la storia insegna poco». Mimmo Gangemi – calabrese doc, di Santa Cristina d'Aspromonte, autore de “Il giudice meschino”, diventato anche una serie tv, e “La signora di Ellis Island” – strappa il sipario e nel suo nuovo libro, “Il popolo di mezzo” (Piemme) racconta l’America non vista e taciuta, quel paese delle grandi speranze che sapeva essere aspro e amaro, umiliando i migranti, stritolandoli in un sistema che li ghettizzava, offrendo loro lavori usuranti come la costruzione delle rotaie. Il paese dello splendente futuro eretto sulle miserie altrui. Proprio in un cantiere nella Louisiana del 1911 comincia questo racconto di un’epopea familiare che mescola rabbia e voglia di rivalsa, narrando i sentimenti di Tony e Luigi Rubbini, due fratelli rimasti orfani dopo il brutale linciaggio subito dai genitori, uccisi dalla violenza della folla, senza una ragione né un processo.

Gangemi prende per mano i fratelli e, con una lingua che non nasconde la miseria e l’orgoglio di quelle esistenze appese ad un filo, mostra il razzismo dell’America e racconta i destini diversi cui andranno incontro Tony e Luigi, l’uno verso i movimenti anarchici (Gangemi inserisce le vere storie di alcuni protagonisti del tempo), l’altro dentro una nuova musica che stava nascendo a New Orleans, il jazz. «Il popolo di mezzo – scrive Raffaele Nigro, l’Amico della Domenica che lo ha proposto al Premio Strega – è un romanzo complesso che chiama alla memoria i libri di Mario Puzo, il disincanto di John Fante e il rimprovero sociale di Corrado Alvaro, ma che si chiude con la luce di una fortuna finalmente costruita sulle infelicità del passato».

Cominciamo dalla fine. Con quali sentimenti si approccia al Premio Strega?

«Raffaele Nigro è uno dei grandi del Novecento, è una grande soddisfazione che sia stato lui a volermi proporre. Ci sono molti libri in lizza, sembra un terno al lotto ma senza falsa modestia credo che il mio sia un libro importante e vorrei approdasse almeno in dozzina».

Perché lo considera un libro importante?

«L’autore ha sempre delle sensazioni ed io sento la stessa tensione che avevo quando “La signora di Ellis Island” approdò sugli scaffali. “Il popolo di mezzo” è un’epopea, una grande saga familiare che attraversa l’Oceano, un racconto reale dell’America d’allora che si rispecchia nei tempi che viviamo oggi, fra odio e disincanto».

Torna ad affrontare il tema dell’emigrazione. Perché?

«È un cavallo di battaglia della mia intera opera narrativa, una lente attraverso la quale guardo e ricostruisco il mondo, il controcanto della storia ufficiale che gronda dai libri di storia. Tutto parte dai ricordi di mio nonno materno che, davanti ad un braciere, ci raccontava quando era caposquadra in un cantiere ferroviario in Louisiana. Anni che immagino fossero stati pesanti, eppure, lui li rammentava con gioia… perché quando i capelli si fanno grigi tutto viene riletto con il rimpianto dei tempi andati».

Nel suo racconto la lingua è centrale.

«È la mia lingua, ci sono voluti decenni per costruirla e me la tengo stretta. Ho iniziato a scrivere venticinque anni fa e una pagina dopo l’altra sono arrivato ad una caratterizzazione del mio linguaggio in cui i miei lettori possono ritrovarsi fedelmente. Questo mi conforta».

Il racconto del razzismo è un libro nel libro. Tutti i lavoratori erano reietti ma fra loro – polacchi, tedeschi e italiani – si ghettizzavano. Perché?

«Io vengo da un paesino dell’Aspromonte, la miseria era generalizzata ma c’era sempre qualcuno un gradino sotto su cui poter scaricare l’odio sociale, per sentirsi meglio. E lo stesso accade oggi in Italia, Nord contro Sud e anche nel Meridione c’è sempre qualcuno che si sente migliore. Appartiene all’uomo, volersi consolare nella ricerca del capro espiatorio».

E come andavano le cose nell’America che racconta?

«All’inizio del Novecento gli italiani erano molto odiati. Abbiamo subito tanti linciaggi della folla ma, sinceramente, abbiamo fatto poco per integrarci. L’italiano migrante non spendeva nulla, viveva stipato in una stanza con altri dieci per risparmiare soldi e rimandare tutto indietro a casa. Inoltre, gli italiani, specialmente quelli del Sud, stringevano amicizia con gli afroamericani nella little Palermo di New Orleans e tutto ciò acuiva il disagio nei nostri confronti. Gli italiani non erano neri ma non erano nemmeno bianchi».

Lei scrive che Tony pestava il suolo con forza, come per far male all’America…

«Dopo aver assistito al linciaggio dei genitori, anche per non abbandonare il fratello che nel frattempo si faceva strada nella musica, Tony sceglie di restare ma con un preciso intento: si sarebbe vendicato, l’avrebbe fatta pagare a quell’America che tanto dolore gli aveva causato».

Il linciaggio è raccontato con pagine molto intense, strazianti. È stato doloroso narrarlo?

«Mi sono documentato con cura. Ma poi ho dato sfogo alla fantasia, ho immaginato cosa può accadere quando la folla si inferocisce e cosa significa morire con un cappio al collo…».

E non tutti i linciaggi erano uguali…

«I genitori di Tony vengono puniti accanto a degli uomini di colore ma a questi ultimi non viene risparmiato proprio nulla, sottoposti alla brutalità estrema. Tony osserva i fatti e in lui si rompe qualcosa per sempre. Nasce un odio insanabile che lo porterà ad abbracciare una presunta lotta politica anarchica».

Invece Luigi si fa strada nel mondo di una musica che stava nascendo in quegli anni, il jazz.

«Hanno dentro la stessa rabbia. Luigi la declina diversamente ma il jazz è una musica di ribellione, una musica di vera protesta».

Il razzismo non è morto?

«Mai. Siamo stati oggetto d’odio eppure oggi accogliamo i migranti con quella medesima rabbia. Dovremmo guardare a questi sventurati con un po’ di umanità ma purtroppo ho capito che la storia insegna poco

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