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A colloquio con l'intellettuale calabrese Walter Pedullà: il giro del mondo in 90 anni

L'opera ripercorre quasi un secolo d'incontri, esperienze, memorie. Partendo da quel "pallone di stoffa" cucito a Siderno, mai dimenticato

Walter Pedullà. Saggista, critico letterario, docente, giornalista

“Il pallone di stoffa”, titolo dell’ultimo libro di Walter Pedullà (Rizzoli) è la metafora di una vita cominciata tra gli affanni e la povertà della periferia nel Sud estremo, in Calabria, e proseguita in un crescendo di successi scanditi nelle tappe di «un giro del mondo in ottant’anni» (in realtà ne ha compiuti 90 il 10 ottobre) che poi è il nome di un capitolo del volume che raccoglie le «memorie di un nonagenario» (e i titoli di capitoli e paragrafi sono tutti gustosissimi), il quale avendo avuto sempre a che fare con la letteratura allegramente confessa: «All’analisi del mio sangue risulta presenza cospicua d’inchiostro», precisando qual è stato il suo percorso di vita: «Sconfinare sempre dalla letteratura alla realtà e viceversa».
Il pallone di stoffa, anzi di pezza, è esistito davvero. Lo cucì il padre sarto al piccolo Walter con i ritagli di stoffa avanzati dal taglio di un abito, e fu la risposta al compagno di giochi ricco che quando perdeva interrompeva la partita e si portava a casa il suo pallone di cuoio. Era il più grande pallone di pezza mai visto, dice Walter, che presto capì che serviva fatica sudore intelligenza disciplina. Non ha mai dormito più di quattro o cinque ore per notte, e soprattutto ha appreso la lezione di filosofia del padre artigiano che gli diceva che «ci vogliono molte molliche per fare una pagnotta».

Quando gli dico che questo suo libro che attraversa Il Novecento poteva intitolarlo “Il secolo lungo di Pedullà” parafrasando “Il secolo breve” di Eric Hobsbawm, mi dice: «Guarda che ho compiuto i novant’anni e non i cento». E ride. Perché Walter Pedullà ha fatto sempre le cose con allegria. Antonio Gnoli dice che quel che colpisce del grande critico letterario, del professore universitario, dell’uomo al vertice di grandi istituzioni culturali del paese, la Rai e il Teatro di Roma, «è il senso teatrale delle idee, il modo figurale, a tratti carnevalesco che ha di raccontarsi».

E di aneddoti, nel libro sui protagonisti del secolo scorso ce ne sono moltissimi. Dal viaggio in treno di ritorno da Firenze con un Giuseppe Ungaretti irato che avendo appena letto il verdetto del critico Gianfranco Contini che lo considerava secondo dopo Eugenio Montale, sbarellava: «E poi, Pedullà, chi è veramente Contini? Posso affermare senza paura di essere smentito che di poesia non capisce niente».

Pedullà richiama la sua militanza socialista fin da ragazzo, l’appartenenza ad una famiglia antifascista e si commuove al ricordo del fratello Gesumino che morì a trentadue anni nel viaggio di ritorno dalla lotta partigiana. Sullo sfondo del racconto popolato dei protagonisti della letteratura italiana del secondo Novecento (Moravia, Pasolini, Manganelli, Arbasino, Eco, per citarne solo alcuni) della cultura e della politica, si staglia sempre il Sud, la Calabria, a cominciare da Siderno, il paese di nascita e della fanciullezza. «È inevitabile – dice – . L’appartenenza alle radici è elemento nutritivo. Parti, magari con l’intenzione di sradicarti, ma poi ogni mutamento o progresso culturale sia pure positivo non può fare a meno di essere misurato col luogo da cui sei partito».

Diventa narrazione civile, “Il pallone di stoffa”, quando lo sguardo si posa sulla società italiana, in particolare sulla questione del Sud, sulla quale dopo libri conferenze analisi riflessioni di più di mezzo secolo ormai Pedullà taglia corto: «È questione insolubile per antonomasia. Si può risolvere nel quadro dell’Europa, perché lì si può porre il problema dell’anomalia delle due Italie. Nel nostro Sud, che non è minore ma è in ritardo, rispetto ad altre questioni di altre nazioni la crisi è permanente, e non si è mai compreso che ha ricadute su tutta l’Italia. Cambiare il punto di vista e di osservazione sarà importante come strumento di conoscenza della realtà vera. Non so fare il profeta ma dico che se abbiamo toccato il fondo o moriamo o risaliamo, ma noi meridionali sappiamo che dobbiamo partire sempre dal fondo».

All’università di Messina sei stato allievo di Giacomo De Benedetti e poi suo successore nella cattedra di letteratura italiana alla “Sapienza” di Roma.

«De Benedetti è stato un maestro. C’era anche Saverio Strati alle sue lezioni. Io alto un metro e ottantatré e Saverio un metro e cinquanta, formavamo l’articolo “il” quando eravamo insieme. De Benedetti scovava significati invisibili e immagini che risalivano dal profondo dell’uomo. Nelle sue lezioni ci svelava una sconosciuta dimensione della letteratura e dell’umanità prigioniera delle imposture di culture che trionfando diventano sempre ideologie. Col suo aiuto scoprimmo che ci può essere più storia in una leggenda che non in una vicenda realistica».

Nel libro racconti della coincidenza di una presenza contemporanea in una stessa pensioncina di via Castelfidardo a Roma di quattro narratori e un professore: Leonardo Sciascia, Giuseppe Bonaviri, Saverio Strati, Mario La Cava e tu...
«Sì, eravamo in cinque. Sciascia e Strati erano il volto silenzioso del vecchio Meridione e gli adorabili chiacchieroni erano La Cava e Bonaviri. Per quanto per natura non sarei taciturno, in quella circostanza preferii schierarmi dalla parte dei muti e ascoltare quel che dicevano quando dicevano, poiché Sciascia ma anche Strati parlavano con i silenzi».

Professore, hai avuto un ruolo determinante nella pubblicazione di Horcynus Orca.
«Il libro di Stefano d’Arrigo fu un’Odissea, anche per me. Passai intere notti sveglio a leggere gli episodi a mano a mano che Stefano scriveva. Non mi avrebbe mai perdonato ritardi nella lettura. Poi fui testimone, anzi accompagnai Arnoldo Mondadori a casa di D’Arrigo quando lo implorò di terminare il romanzo e consegnarglielo. Quando uscimmo l’editore mi disse: ho cominciato la mia attività di editore con D’Annunzio, la chiuderò con D’Arrigo. Se posso dire con Horcynus Orca D’Arrigo ha dimostrato quello che era capace di fare come romanziere. L’ho letto a episodi non appena l’autore li licenziava. Leggendo quelle pagine crescevano i gradi della mia conoscenza e la scoperta dell’equilibrio tra la musica dell’italiano e il sapore del dialetto ricondotto in lingua. In fondo leggevo il libro del secolo».

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