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Il libro di Fabio Luppino: la vita? Come il calcio, parola di terzino. Sinistro

Non si è terzini per caso. E, forse, non si smette mai di essere terzini. Sinistri. Lo dice tutto nel titolo Fabio Luppino, giornalista di lungo corso, caporedattore dell'Huffington post e, prima, colonna portante dell' “Unità”. Romano, romanissimo, anzi, di Spinaceto.

Ma con ascendenze calabresi, legami stretti col Sud, a partire dal cognome, e forse certe telluriche lave interiori, una passione per le passioni, sia pure sotto una superficie inalterabile di disincanto e ironia.

Con gli occhi di un terzino sinistro” (Emersioni) s'intitola il suo romanzo, ed è esattamente il modo in cui vediamo, con gli occhi dell'io narrante, un ragazzetto di Spinaceto, comune di Roma, che, zaino in spalla, attraversa gli anni Settanta e un sacco di campetti e prati e piazzole, preso a fare quello che sempre ci tocca: capirci qualcosa, in questo assurdo gioco di squadra eppure individuale, questa cosa corale eppure intima, questa partita senza regole, tutta regole, che è la vita.

Romanzo di formazione, certo: in undici, e sulla schiena quel numero, e nello schema quel ruolo, terzino sinistro, accidenti. Conquistato, come ogni cosa che si riesce a capire di se stessi («ci nasci, con il ruolo cucito addosso, sulla pelle, come il numero sulla maglia»), e poi perseguito, con fatica e sudore. Che giocare a calcio è un duro lavoro, esattamente come crescere, e quel ragazzino che incontriamo subito ce lo dimostra, pagina su pagina, pallone su pallone. E parola su parola: non smetti mai di lavorare, di allenarti, per diventare quello che già sei, per essere compiutamente quello che senti di essere. Un terzino sinistro, appunto.

In quel particolare pezzetto di mondo, in quegli anni, di lotta e di piombo, di impegno politico, di illusioni e autogestioni. Ma poi, sul campo, si torna soli («noi ridotti a massa, nell'aula magna, tornavamo individui al calcetto»), e allo stesso modo si rompono le appartenenze e se ne disegnano altre. Che campo di forze, il campo da gioco. Che redistribuzione delle parti, che smacco per le fazioni: «Le eterne partite sull'asfalto erano democrazia. Destra e sinistra non esistevano, ricchi e poveri nemmeno». Che lezione di democrazia, parallela a quelle dell'insegnante d'italiano, alle severe letture sulla Resistenza, che ancora negli anni Settanta è valore condiviso e certo non minacciato dal grottesco revisionismo di oggi. Che lezione di responsabilità individuale e di dedizione al collettivo, come la “nuova” politica cerca di fare, come i partiti tradizionali non sono già più in grado di fare.

E il terzino sinistro solleva appena lo sguardo, e procede nel suo compito e verso la sua meta, tra fantasia e precisione, calcolo geometrico e ispirazione, allenamento e improvvisazione: «il cross in corsa dal fondo di sinistro». Perdere, vincere non è così importante, pur essendo importantissimo. Lo scopo è perseguirli, quel cross, quella rovesciata al volo spalle alla porta («il perché non parli del calcio»), costruirli, e poi viverli fino all'estremo istante, alla bellezza irripetibile del gesto perfetto. Che è di quell' “io” ma vale per il “noi”. Il terzino spesso usa il “noi”: sono gli anni Settanta che parlano in lui. «Dell'io e del noi senza farsi spingere dal noi, ma facendone parte come uno di un tutto... individuando una posizione nel mondo che poi al mondo in ogni caso tornerà utile».

Essere utili al mondo, era quella la disciplina etica di quegli anni, che sarebbero naufragati nell'edonismo degli Ottanta, nell'opportunismo dei Novanta. Tutti quanti punteggiati dai Mondiali, quell’enorme rito collettivo, e dal 1970 al 2006 li abbiamo patiti tutti, e il terzino sinistro di più: «I pugni bassi di Riva quando segna alla Germania, il carattere dei ragazzi del '78, l'urlo di Tardelli, le lacrime di Baggio, la delusione di Nesta, eroico e sfortunato, l'arbitro Moreno e la stella di Grosso, l'ultimo rigorista a Berlino». C'è una controstoria del calcio giocato e del calcio spettacolo che s’incrociano nelle vite e nelle mitologie di tutti, e per il terzino sinistro di più. Perché lui sa cosa c'è fuori dal campo, fuori dal gioco: nelle ore infinite, nei giorni in cui costruisci quei novanta minuti, quelle gambe, quella mente, quel cuore. Perché comunque, dopo tante giornate di niente, dopo delusioni e illusioni, attraverso disincanti e separazioni, sai che quella luce è lì, è tua. Quel cross in corsa dal fondo di sinistro.

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