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Quando lo sguardo rifonda i mondi: poeta e fotografo a confronto in un “viaggio” d’immagine e di parola

Il poeta è colui che si guarda allo specchio e prende appunti. Il fotografo è il poeta elevato alla settima, poiché gli appunti li prende sulla carne viva della realtà, e sul proprio sguardo che in essa si riflette. In poche parole, rimodella lo spazio a suo piacimento, grazie a una «ridistribuzione teatralizzata delle luci».

Si potrebbe quasi dire che egli, il fotografo, sia animato da una voglia estremizzante di far sopravvivere a tutto la realtà, di cui egli è amante e compagno di strada.

Il fotografo ha sempre voglia di andare in scena davanti allo specchio della realtà, come in un gioco continuo di domande e di risposte fra se stesso e il mondo che lo circonda. Quello che edifica con le proprie immagini è un castello pieno di preziosi silenzi da visitare come un museo. Ma animato dal bisogno di accorgersi di tutto, apre la gabbia di quel museo e rimette in libertà quei silenzi. Ecco, è avvenuto il prodigio: col suo ordigno mentale – armato dall’obbiettivo – ha fatto esplodere, ancora una volta, quell’angolo di mondo impresso sulla pellicola. Le opere di Salvatore Piermarini esprimono tutto ciò, sono tele impreziosite da cornici di vita, quadri di un’esposizione perenne che non ci permette il lusso di rimanere chiusi in salotto, ma accompagna i nostri passi lì fuori per decifrare meglio l’esistenza che ci circonda, l’umanità di cui siamo fatti.

Due recenti e raffinate pubblicazioni rendono omaggio a questo artista scomparso, ahimè, prematuramente nei mesi scorsi. Si tratta de “Il perduto incanto” (Rubbettino, pp. 467, euro 24) e “Pathos” (Rubbettino, pp. 156, euro 19), entrambi per i tipi di Rubbettino, per la collana “che ci faccio qui”, e scritto quest’ultimo in collaborazione con Vito Teti, l’insigne antropologo e scrittore calabrese (che della collana è direttore). Si tratta di volumi che superano i confini del convenzionale e si pongono in una dimensione altra del panorama editoriale attuale: sospese come sono fra suggestione fotografica, semplice racconto autobiografico e densa speculazione, saggio, diario, fuggitive visioni.

Nel “Perduto incanto”, Salvatore Piermarini ci racconta la sua storia, la storia della sua vita, e lo fa come se avesse voglia di fermare con la scrittura tutti i suoi giorni che corrono uno dietro l’altro. E ci riesce benissimo. La temperie autobiografica esalta l’impianto narrativo.

Ma il poeta-Piermarini sente che la semplice penna non basta e tutto il suo racconto diventa un tutt’uno con le immagini, con il diario di immagini modellato sulla sua anima dalla fedele macchina fotografica. Emblematica la sua urgenza di “lasciare un segno”, quando sul treno Milano-Venezia nel 1973, immortala se stesso in uno scatto: «Facendomi una foto allo specchio, traccio a mano una frase nel tentativo di aggiungere all’autoritratto qualcosa di ulteriormente personale. Alla presenza dell’immagine di me, riflessa e fuori fuoco nello specchio, si aggiunge la frase mentre scrivo sulla superficie liscia e lucida. In una sola azione auto-percettiva si individuano a spanne quattro segni: il fotografato, lo scritto, l’inquadrato e il rispecchiato».

Specchi, ombre, vetri, autoritratti, gemelli, doppi sosia: un libro che non si dimentica questo “Perduto incanto”. D’altra parte, è lo stesso Piermarini che annota a margine dei suoi ritratti: «Allo specchio si addice il duplice significato di speculazione: se proviamo a guardarci allo specchio esso si adatta alla nostra speculazione e nel contempo specula su di essa». Come diceva Cioran: «Lo specchio è maligno».

Tra l’occhio, l’obbiettivo e la camera oscura si crea una complicità contradditoria, che va ben oltre il semplice gesto dello scatto: «Il disagio del fotografo resiste nel comprendere che l’identità interiore di un’immagine si oppone alla sua apparenza esteriore».

Non è un caso allora che il percorso creativo di Salvatore Piermarini abbia intersecato quello del viaggio speculativo di Vito Teti, l’antropologo-poeta. E il dialogo «intenso e ininterrotto», lungo decenni, fra i due autori diventa linfa vitale per il volume “Pathos”, volume in cui «lampi, immagini e testi carichi di emozione» fondano una memoria ritrovata, vero e proprio temps retrouvé , grazie a uno sguardo sul Sud, sulle periferie del mondo, sui «paesi doppi dell’emigrazione e dei paesi abbandonati, delle loro rovine», solo a patto che quello sguardo possa poi diventare ricreativo, rigenerativo, e non resti mai semplicemente nostalgico.

Annota Vito Teti: «Frammenti, schegge, schizzi, ombre segnalano ancora la vita della città vuota. Quasi con la sensazione che un discorso interrotto possa essere ripreso, come avviene in presenza di una grande perdita. La vita che si appiccica alle macerie, che non se ne vuole andare, che chiede attenzione. Non so se si tratti di una sepoltura o di una nuova rinascita».

In “Pathos” le suggestioni visive (insieme con le considerazioni e le sollecitazioni scritte) di Piermarini s’intrecciano con quelle di Teti, entrambi gli autori spinti dall’esigenza di accorgersi di tutto, di non perdersi la fine di tutto – ma solo con lo scopo di scovare nuovi possibili inizi, ideali mondi futuri dentro il passato – e di non tenersi a bada nell’ansia di registrare ogni cosa, ogni emozione, per poi potere raccontare tutto. Come quei bambini che al ritorno dalla festa non vogliono più andare a letto per paura che il sonno cancelli i sogni che hanno appena vissuto.

Un talento per il reportage

Salvatore Piermarini (Ascoli Piceno, 1949, Roma, 2019) aveva cominciato a fotografare e si era dedicato al reportage nel 1966: negli anni ha realizzato centinaia di reportage sulle metropoli, sul lavoro, sul mondo dell’arte, sull’architettura. Numerosissime le mostre personali e collettive, e le collaborazioni con prestigiose istituzioni culturali italiane e straniere. Tra i suoi libri “le strade di casa” (con Vito Teti, Mazzotta, 1983), “Lo sguardo di New York” (con Mauro Mattia, la Casa Usher, 1990), “Inventario mediterraneo” (Monteleone, 2001).

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