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Coronavirus, il focolaio e il focolare: quale idea di mondo. Autori calabresi da scoprire

Ai tempi di Boccaccio, il timore della peste ha dato spunto a uno dei capolavori della letteratura occidentale. Senza alcuna pregiudiziale opposizione tra passato e presente, bisogna osservare che, in tempi di Coronavirus, assistiamo al diffondersi di fobie, paure anche comprensibili, leggende metropolitane e di un'informazione schizofrenica.

Alcune pratiche suggerite, specialmente in rete, per vincere il virus e l'ossessione che determina sfociano nel magismo, nella credulità, nel rifiuto della scienza o negli slogan che creano ulteriore confusione. Non sono mancati le ironie e gli sfottò da parte di “sudisti” contro “nordisti”, a cui non è parso vero trasformare lo sciocco “Forza Etna” in “Forza Coronavirus” e l'antico e ignobile “vietato l'ingresso ai meridionali” nell'altrettanto spregevole variante contro i “settentrionali”. Chi di razzismo ferisce di razzismo può anche perire.

Tra Ottocento e Novecento gli antropologi positivisti elaborano il paradigma dei meridionali criminali, apatici per razza e naturalmente inferiori rispetto agli Arii, ai settentrionali, ai Celti. Senonché, circa nello stesso periodo, negli Stati Uniti la psichiatria, i giornali, il cinema unificano le due categorie di settentrionali e meridionali, tutti ritenuti inferiori, criminali, inadatti alla civiltà. Il “prima gli italiani” sembra avere avuto una nemesi perché in questi giorni all'estero gli indesiderati da respingere sono proprio gli italiani. Ci vuole la catastrofe per capire che viviamo tutti sotto lo stesso cielo?

Anche una lettura critica della storia e della produzione letteraria del Sud fornirebbe tante buone ragioni per capire che il Mondo non può essere separato in piccoli mondi non comunicanti. Nel 1911, anno di pubblicazione dell'Inchiesta Faina-Nitti che rivela una situazione di povertà estrema nel Sud d'Italia e in Calabria, a Verbicaro (Cosenza), come ha ricostruito Felice Spingola, a seguito di un'epidemia di colera che aveva provocato numerose vittime si verifica una violenta rivolta popolare, con tre morti e decine di arresti, che autorità e giornali spiegano con termini mutuati dall'antropologia positiva.

Viene coniato il neologismo «verbicarismo», ripreso da Paolo Orano, per indicare «primitività di istinti e di cultura; stato di arretratezza» delle popolazioni convinte che il colera fosse stato diffuso dalle autorità. La spiegazione della paura e della rivolta popolare viene inserita nel paradigma razzista antimeridionale, che in anni recenti sarebbe stato ripreso dalla Lega di Miglio, Bossi e del giovane Salvini.

Allora come oggi, queste comode e sommarie spiegazioni prendevano il sopravvento sulle analisi storiche e sociali dei “meridionalisti” e degli studiosi più vicini alla realtà osservata. Come ricostruisce Spingola, in realtà gli episodi del 1911 “ripetevano”, quasi in forma identica, quanto era avvenuto in Calabria e in varie parti del Sud nel 1867-1868. La storia post-unitaria del Sud e della Calabria è ricca di episodi di ribellioni contro i ricchi, i potenti, i “piemontesi” che buttavano nell'acqua una “polverina” per avvelenare i “poveri Cristi”.

In questi giorni di paura e di ansia potremmo trovare motivo di rileggere (oltre a Boccaccio, Saramago, Manzoni, Camus) tre autori di origine calabrese ma affermatisi nel mondo della cultura e del giornalismo italiano ed europeo. Penso a Raul Maria De Angelis, che nel 1943 pubblica presso Mondadori “La Peste a Urana”; a Pietro Lazzaro, che nel 1949 scrive “Mille anime”, romanzo breve amato da Pancrazi, Flora, Calvino, che racconta la fine di un villaggio e la morte di tutti i suoi abitanti a seguito di una misteriosa pestilenza.

Un discorso a parte meriterebbe Rocco Carbone, reggino, prematuramente scomparso nel 2008, uno degli scrittori italiani più originali dell'ultimo periodo. Nel suo “L'Assedio” (1998), in una lontana città di provincia affacciata sul mare (in cui si riconosce Reggio Calabria) comincia a cadere una pioggia di sabbia bianca, materia inerte e insidiosa che provoca stupore, panico, inquietudine nella popolazione, modificandone le abitudini. Una situazione estrema che pone domande estreme, inimmaginabili, dinnanzi a un evento “misterioso” e, forse, “finale”.

In autori lontani e diversi troviamo il senso e la paura della fine verosimilmente legati a una geoantropologia segnata da catastrofi, scomparsa dei paesi, paura di “fine del mondo”. Essi sembrano sfidare in anticipo la “grande cecità”, che Amitav Gosh imputa alla letteratura contemporanea, sull'apocalisse incombente a causa dei grandi rivolgimenti climatici, che non risparmiano alcun luogo.

Suonano quindi superficiali gli inviti a tornare nei paesi, magari abbandonati, del Sud come se fossero isole felici, separate dal mondo. Non esiste un “noi” chiuso, puro, incontaminato in cui rifugiarsi. Anche la vicenda del Coronavirus mostra quanto illusoria sia una posizione ingenuamente modernista, convinta che sia possibile debellare presto tutte le malattie. Sperimentiamo, purtroppo, quanto erronee siano le distinzioni oppositive tra Italia e mondo, Nord e Sud, paesi e città.

I luoghi, i paesi e le città sono contigui e comunicanti: il “focolaio” nel Nord Italia è esploso proprio in piccoli centri. Certa retorica sui paesi, mitizzati, non guardati nelle loro contraddizioni, fragilità e potenzialità, è l'altra faccia del metropolitanismo, perché incapace, seppur inconsciamente, di destrutturare la funzionalità apparentemente dicotomica tra l'idea di paese e quella di città.

È necessario avviare processi di costruzione di nuova consapevolezza “politica” sui luoghi dell'abbandono, delle aree interne, dei paesi appenninici (si vedano i lavori recenti di “Riabitare l'Italia”, di De Rossi, Nigro e Lupo). Non si può sognare un ritorno a piccole patrie, ma costruire qualcosa di nuovo.

Più che di slogan o di ritorni a un “magismo” che sembrava superato avremmo bisogno di una classe politica all'altezza anche di eventi imprevedibili, di élite intellettuali capaci di pensare la complessità e di non cedere a suggerimenti di maniera, avremmo bisogno di scienza (non di scientismo), di saperi, di verità, di un sistema sanitario efficiente e diffuso, di valorizzare le eccellenze in campo medico di cui andiamo giustamente orgogliosi.

Che senso ha invitare a tornare in paesi e regioni senza ospedali, strutture sanitarie, centri specializzati? Più che compiacersi e dare istruzioni per l'uso, bisognerebbe chiedere occupazione, scuole, sanità, paesi vitali e popolati. Progetto, politica, impegno, responsabilità per un'idea nuova dell'abitare nei paesi e nelle città.

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