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Storia di Soumaila morto di “pacchia”

Scrive di un uomo che non esiste più, di un'ingiustizia che dura Bianca Stancanelli, nel suo racconto-verità “La pacchia” (Zolfo editore), dedicato a quei benemeriti che salvano vite in terra e in mare.

Anche la vita di Soumaila Sacko, nato in Mali, ucciso in Italia, poteva essere salvata. Ma dopo essere sbarcato in Italia dalla nave Etna che nel 2014, nell'ambito dell'Operazione Mare Nostrum, lo aveva raccolto forse reduce da un naufragio o forse avvistato in mare su una delle barche o dei gommoni salpati dalle coste libiche, dopo essere stato nel centro accoglienza di Carovigno in Puglia, Soumaila muore nelle campagne calabresi. Ucciso a colpi di fucile da un uomo perché il giovane, assieme ad altri due migranti, Drame e Fofana, un pomeriggio del 2 giugno del 2018 era andato a prendere lamiere da una fornace abbandonata (peraltro, un vero e proprio cimitero di rifiuti tossici): servivano, quei rottami malconci, per rinforzare le baracche della desolata baraccopoli in cui i tre hanno vissuto e continuano a tornare, assieme a tanti altri.

Intanto, nello stesso tempo un (allora) ministro della Repubblica, a ottocento chilometri dal disperato luogo in cui Soumaila cade (nella stessa regione in cui il ministro è stato eletto senatore) grida, attorniato da una folla entusiasta, «La pacchia è finita».

Ma com'era arrivato Soumaila nella piana calabrese, e in quella desolata baraccopoli? Bianca Stancanelli, giornalista e scrittrice messinese, ricostruisce, con la sua inchiesta, la storia di Soumaila, ne segue le tracce, a cominciare dalla partenza dal Mali sino all'arrivo in Puglia e poi in Calabria. Il risultato della sua inchiesta sul campo è un libro (che sarà presentato domani a Messina) che dà contemporaneamente conto di molte “pacchie”, di cui sicuramente nessuna ha per protagonisti i migranti.

Soumalia è un ragazzone sorridente, un ventinovenne costretto ad andar via dal suo paese dove ha lasciato una moglie e una bambina; a Bari ottiene il riconoscimento della protezione internazionale, ma un giorno, senza aspettare che si definisse l'iter della sua richiesta d'asilo, va via da Carovigno. E arriva in Calabria, dove entra a far parte di quell'esercito multietnico di braccianti di un territorio senza legge in cui i maliani hanno formato un'estesa colonia.

Niri o nigri o nivuri li chiamano i calabresi, e, come si legge in “Terraingiusta”, rapporto dell'associazione Medu (Medici per i diritti umani), vivono in alloggi di fortuna, in casolari diroccati o nei capannoni abbandonati della “seconda zona industriale” di San Ferdinando. Luoghi orribili, in condizioni miserevoli.

Su questa miseria - segnala Medu - ruota una girandola di denaro pubblico (una «pacchia» questa, sì), ruota l'illegalità, ma tra questa miseria si muovono generosamente anche gli onesti di questa terra sfortunata. E ci sono anche - per fortuna - storie di solidarietà e di ostinata resistenza, attraverso le quali Bianca raccoglie la storia di Soumaila.

Il giovane, anche dopo aver avuto il permesso di soggiorno, dopo essere stato tra i fondatori dell'Associazione maliani e dopo aver avuto assegnato un posto nella tendopoli, una struttura molto più dignitosa e igienica realizzata dalla Protezione civile, continua a frequentare la baraccopoli (che in realtà avrebbe dovuto essere abbattuta), attirato, come gli altri, dal fascino cencioso di quella “città” miserabile dove apre anche una sua piccola attività.

E poi arriva la maledetta sera del 2 giugno, ma Drame ne rende una coraggiosa testimonianza e l'assassino di Soumaila sarà arrestato.

Da morto Soumaila è stato più eloquente che da vivo. Un anno dopo, vi sarà una cerimonia in suo ricordo. Un risarcimento postumo. Volevano liquidarlo come un ladro, viene celebrato come un eroe. In realtà, diventa un simbolo, di un'umanità sfruttata e piegata, che vive ai margini e che talora diventa un comodo capro espiatorio per le nostre inadeguatezze.

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