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La "maffia" calabrese raccontata da La Cava, gli inediti dello scrittore di Bovalino

Mario La Cava

La “maffia”, raccontata da Mario La Cava, maffia, con due effe, come usavano scrivere un tempo pochi, rari giornalisti, studiosi e scrittori che ne parlavano, rompendo il silenzio, assordante, della maggior parte dell'opinione pubblica, di intellettuali, politici, uomini della Chiesa, secondo cui il fenomeno mafioso era pressoché inesistente. Un'invenzione dei giornali, si diceva, di nemici della Sicilia, considerata terra madre di Cosa Nostra. La Cava, “compagno di processione” di Sciascia, Montalto, Consolo - secondo un'azzeccata definizione del compianto critico letterario Gianni Carteri - di “rischio maffia”, per la Calabria, inteso come rischio nuovo, aggiuntivo, per una regione fragile, con rischi storici connaturati, come terremoti, maremoti, alluvioni, ha scritto nell'arco di quindici anni, dalla fine degli anni Sessanta a metà degli anni Ottanta, quando ancora il pericolo mafia non era percepito nella dimensione che solo molto più tardi avrebbero “scoperto” media nazionali, istituzioni, società civile, gerarchie ecclesiastiche.

Ha scritto su vari giornali, nazionali e regionali, tra cui il “Corriere della Sera”, raccontando una Calabria, terra dove, come quasi sempre in premessa avverte, può accadere di tutto: una Calabria fonte di notizie “allarmanti”. Più che articoli, o reportage, gli interventi di La Cava sono narrazioni, racconti corali, in cui entrano voci, personaggi, testimonianze di gente comune, umile, ma anche di mafiosi, che lo scrittore incrocia nei suoi frequenti viaggi dentro il mondo rurale, e costiero, jonico calabrese. Un mondo già “esplorato” da Perri, Alvaro, Montalto, Strati, nei loro scritti sulla “maffia”, saggi, romanzi, che La Cava conosceva bene, come conosceva quelli di Sciascia, scrittore con cui aveva amichevole frequentazione, e ancora più frequenti scambi epistolari, poi raccolti in “Lettere dal centro del mondo” (a cura di Milly Curcio e Luigi Tassoni, editore Rubbettino).

Queste narrazioni dello scrittore di Bovalino sulla “maffia” calabrese (24 in tutto) sono state ordinate e pubblicate nel libro “I miei maffiosi” (edizioni Hacca) nella collana diretta da Giuseppe Lupo. Sono cronache, ma soprattutto analisi, riflessioni, che colgono il passaggio, come osserva nell'introduzione al volume Vito Teti, dalla “maffia” rurale, agropastorale - ormai in dissoluzione - alla “maffia” che si afferma con i sequestri di persona, le rapine violente, e si accinge a diventare maffia imprenditrice, degli appalti, e a contaminare politica, impresa, economia e finanza. Raccontare la maffia, per La Cava, scrittore mosso da forte passione morale e civile, è anche un modo per “leggere” il fenomeno in relazione alla natura della violenza mafiosa; per sottrarlo all'idea di una violenza “naturale” del mafioso, tanto cara non solo ai seguaci dello scienziato criminologo Cesare Lombroso (quello della fossetta occipitale del Calabrese), ma anche a molti analisti, e letterati, ieri come oggi, resistenti.

La Cava riconosce una specificità regionale del fenomeno, ma lo contestualizza nella più ampia situazione italiana, svilita da un sistema corruttivo (deriva del capitalismo) che ha gli stessi interessi del sistema mafioso: la borsa, il profitto, lo sfruttamento. I codici, i segni distintivi, sono uguali, anche al di là del Sud, come sottolinea La Cava: «Mi pare che tali comportamenti siano tutt'altro che anomali nella società italiana, dove regna il sopruso e dove gli esempi di malcostume sono alla portata di chiunque voglia conoscerli».

“I maffiosi” ci riconsegnano un La Cava, intellettuale e scrittore, punto di riferimento della cultura nazionale, a vent'anni dalla scomparsa. Quel La Cava apprezzato e amato dal triestino Claudio Magris, che, accostandolo al suo concittadino Giorgio Voghera, aveva proposto un gemellaggio tra il capoluogo giuliano e Bovalino: amico e fedele lettore di La Cava, si professa Magris, in più occasioni. E rimarca il significato profondo di amicizia, valore che Mario La Cava ha condiviso con altri intellettuali, e scrittori, come si evince dalle parole del siciliano Leonardo Sciascia: «Vecchio e grande mio amico, scrittore cui voglio bene ed ammiro».

Non è un caso, dunque, che la produzione letteraria di La Cava stia vivendo una nuova stagione di vita, una riattualizzazione, grazie soprattutto all'impegno degli eredi, i figli Rocco e Grazia, e il genero Domenico Calabria, instancabili animatori del “Caffè Letterario Mario La Cava” di Bovalino, e del premio letterario Mario La Cava. Da poco l'editore Rubbettino ha ripubblicato “I fatti di Casignana”, il romanzo con cui lo scrittore di Bovalino indaga sulle cause della sconfitta del movimento contadino, denuncia la complicità del potere economico, e politico, muovendosi sulle orme del siciliano Giovanni Verga e del molisano Francesco Jovine, autore dei romanzi “La signora Ava” e “Le terre del Sacramento”. Un altro inedito di La Cava, appena pubblicato”, è “Viaggio in Lucania” (Rubbettino, pagine 100, euro 12), reportage del 1952, con cui lo scrittore racconta di una delle terre del Sud tra le più emarginate, come la sua Calabria, osservandola con gli occhi di Leonardo Sinisgalli e Rocco Scotellaro, ma percependo che in quel territorio ancora «al di qua del moderno», il moderno, al contrario della Calabria, stava per arrivare.

Anche in “Viaggio in Lucania” troviamo il carattere meridionalista della narrazione di La Cava - ancorata alla meditazione civile - che attraversa tutta la sua vasta produzione giornalistica e letteraria. Caratteristiche, riguardo all'impegno civile, che ritroviamo in “Omissione di soccorso” (edizioni Città del sole), il libro in cui sono riuniti gli articoli sul sequestro Moro, che lo scrittore definisce «una tragedia Italiana».

Rivive, dunque, il La Cava meridionalista, lo scrittore libero, indipendente, a lungo dimenticato dopo gli esordi nazionali felici, con “Caratteri”, “Le memorie del vecchio maresciallo”, “Una storia d'amore”, “I fatti di Casignana”, e infine con “Il matrimonio di Caterina”. Poi, venne il tempo dell'oblio, in cui gli scrittori del Sud, appartati, come La Cava, legati al territorio, non trovarono più posto, nell'Italia moderna, rumorosa, rampante. Ne è testimonianza una lettera, significativa del clima culturale nascente, di Italo Calvino: «Ho ancora una volta apprezzato la tua finezza nelle annotazioni psicologiche più lievi, il tuo garbo, la tua fedeltà a una civiltà fatta di classicità e misura. Ma come far sentire un voce discreta, come la tua, in mezzo ai fragori dell'epoca in cui viviamo?».

Comunque, adesso, La Cava è tornato.

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