La questione è stata anche più volte sollevata dagli istituti penitenziari calabresi che devono sobbarcarsi la custodia di persone che non sono gestibili. Risultato? Un malato psichiatrico spesso viene semplicemente trasferito. Il più delle volte senza essere curato. Ma è solo una parte della matassa. Per Luca Muglia, garante regionale dei diritti delle persone detenute della Calabria, non è purtroppo neanche la parte peggiore della questione e sulle Rems insiste affermando che nonostante le migliorie bisogna lavorare. Per eliminare i tempi di attesa stimati in 2 anni. Altra questione? Cercare di trovare psichiatri che vogliano lavorare in carcere magari studiando nuovi incentivi, non solo economici, con il dipartimento regionale di Tutela della Salute.
Le Rems in Calabria sono solamente due: a Girifalco e a Santa Sofia D'Epiro. Più volte, però, lei ha denunciato la necessità di fare di più. E soprattutto di avere più strutture di questo tipo, per eliminare le attese e per consentire ai detenuti che hanno patologie psichiatriche una soluzione più consona. Si sta muovendo qualcosa?
«La situazione è migliorata in quanto le Rems di Santa Sofia d’Epiro e Girifalco sono a pieno regime e ospitano 20 pazienti ciascuna. Alla data del 31 luglio non vi erano in Calabria persone detenute in carcere sine titulo in attesa di un collocamento in Rems, mentre le persone in stato di libertà in attesa erano 27. Il dato meno buono riguarda, invece, il fatto che il tempo medio di permanenza in lista di attesa supera 2 anni. Trattandosi di persone ritenute socialmente pericolose, è facile intuire quali possano essere i rischi a carico degli interessati, delle famiglie e della collettività. L’auspicio è nella Rems di Girifalco, struttura di eccellenza, possa essere attivato il secondo modulo che consentirebbe di ospitare altri 20 pazienti. Quanto a Santa Sofia d’Epiro, parliamo di una Rems datata nel tempo che necessita di urgenti adeguamenti tecnico-strutturali più volte richiesti e non ancora realizzati. Sarà importante, infine, attivare quanto prima il “punto unico regionale” (PUR), già istituito dalla Regione Calabria, che ha l’obiettivo di supportare l’autorità giudiziaria al fine di dare esecuzione ai provvedimenti applicativi di misure di sicurezza detentive».
Le è stato segnalato qualche caso che meriterebbe di essere attenzionato? Qual è al momento la situazione in Calabria?
«L’internamento in Rems riveste carattere eccezionale, applicabile solo nei casi in cui sono acquisiti elementi dai quali risulti che è la sola misura idonea ad assicurare cure adeguate ed a far fronte alla pericolosità sociale dell’infermo o seminfermo di mente. Detto questo, le difficoltà che ho riscontrato sono due. Da una parte, le problematiche psichiche gravi, accompagnate dal rifiuto del paziente di assumere la terapia, hanno comportato in alcuni casi il ricorso al trattamento sanitario obbligatorio (TSO), procedura a dir poco invasiva. Ciò è accaduto, peraltro, sia per pazienti in Rems che per persone detenute negli istituti penitenziari. Dall’altra, il programma individualizzato prescritto dalla legge, finalizzato ad incoraggiare le attitudini e valorizzare le competenze che possano essere di sostegno al reinserimento sociale, nel caso di persone inferme di mente risulta assai complesso e difficile. Da qui l’importanza dei progetti post Rems che intervengono in tale direzione, contribuendo anche a non vanificare il lavoro riabilitativo svolto».
Lo scorso agosto, all’interno della casa circondariale di Poggioreale, in Campania, si è verificato un episodio terribile di cannibalismo. Un detenuto affetto da un disturbo psichico, diagnosticatogli all’ospedale di Torre del Greco, ha aggredito un altro detenuto. Prima lanciando del detersivo nei suoi occhi e poi ha letteralmente staccato e mangiato parte di un dito dell'altro detenuto, anche lui, tra l'altro, affetto da problemi psichici. Si sono verificati anche in Calabria casi simili?
«Fortunatamente no. Va detto, tuttavia, che gli eventi critici registrati nel primo semestre 2024 documentano come in Calabria siano ormai all’ordine del giorno gli atti di autolesionismo o i tentativi di suicidio posti in essere da detenuti con patologie psichiatriche, così come le aggressioni ai danni di altri detenuti, del personale medico o della polizia penitenziaria causate da un disagio psichico. Parliamo di detenuti con patologie gravi o affetti da disturbi della personalità, dell’umore, traumatici e psicotici, talora con doppia diagnosi, che andrebbero curati in strutture adeguate. Premesso che in Calabria l’unico reparto di Articolazione per la tutela della salute mentale (ATSM) è quello della Casa circondariale di Catanzaro e che lo psichiatra è presente in pochi istituti penitenziari, il carcere finisce di fatto per aggravare lo stato di salute di queste persone. "L'assenza del servizio di psichiatria in carcere produce effetti pesanti. Si corre il rischio di creare sezioni "ghetto" riservate ai detenuti cosiddetti psichiatrici che non possono ricevere alcuna terapia».
In Italia le malattie psichiatriche vengono spesso sottovalutate e, ancor di più, i soggetti psichiatrici che devono scontare una pena. Ha avuto anche lei questa percezione?
«Assolutamente sì. La lettura involge due piani diversi, ma estremamente connessi: la difesa sociale e il diritto alla salute. L’obiettivo dovrebbe essere, infatti, quello di conciliare le esigenze di sicurezza con il diritto alla cura ed al reinserimento sociale dei pazienti psichiatrici autori di reato. Occorre rammentare, al riguardo, che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità la salute mentale è un diritto umano fondamentale e che le persone afflitte da tali problematiche all’esito dell’esecuzione della pena ritorneranno a vivere e ad interagire nella società. Garantire in modo adeguato il diritto alla cura mentale ed al reinserimento significa, quindi, tutelare anche le esigenze di difesa sociale della collettività, riducendo sensibilmente il pericolo di recidiva».
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