Questo sito contribuisce all’audience di Quotidiano Nazionale

Rapito e assassinato a Giffone 40 anni fa. L’appello dei fratelli di Alfredo Sorbara: “I nostri genitori morti con dolore”

Quarant’anni di dolore. Bartolomeo Sorbara, 72 anni, pensionato, vive a Giffone, piccolo centro della Piana di Gioia Tauro. Suo fratello, Giuseppe, è stato sindaco comunista del paese negli anni ‘80 ed è morto nel 2016. Così come i genitori Pasquale e Filippina. L’altro fratello di Bartolomeo, Alfredo, ruspista, è stato invece rapito e ucciso nel 1984. Un sequestro, quello di Alfredo, dimenticato da tutti. «Vorrei che si ricordasse la sua storia» dice Bartolomeo «è un fatto gravissimo che ha sconvolto la mia famiglia condizionandone per sempre la vita. I miei genitori e mio fratello sono morti con questo dolore!». Il cadavere dell’ostaggio non è mai stato ritrovato e le indagini avviate dalla magistratura in quei tempi lontani non approdarono a nulla.
«Noi» confessa Bartolomeo Sorbara «non siamo più andati tra i boschi da quando abbiamo capito che Alfredo era stato ammazzato e sepolto da qualche parte tra gli alberi. Temiamo di calpestare la porzione di terreno sotto cui potrebbe essere stato sotterrato». I Sorbara vorrebbero ritrovarli i resti del loro familiare e, magari, capire chi lo rapì e poi lo soppresse. Vorrebbero, in cuor loro, che la magistratura offrisse delle risposte, indicasse delle piste.
Ma ricostruiamo la vicenda all’epoca seguita con grande attenzione dal nostro giornale. Anzi, una foto con l’ostaggio che reggeva una edizione della Gazzetta venne inviata dai sequestratori ai congiunti per dimostrare che era vivo.
Il primo maggio del 1984, Alfredo Sorbara era in compagnia di Francesco Primerano, assessore comunale all’Agricoltura ed esponente locale del Pci, quando venne bloccato da un commando comparso all’improvviso a bordo di una Fiat 128 di colore bianco. Il ruspista venne picchiato, immobilizzato e caricato a forza sull’auto; l’altro venne aggredito ma lasciato libero. Alla famiglia giunse subito una richiesta di riscatto: cinque miliardi di lire. Una cifra astronomica per una nucleo di persone dedite al lavoro, estranee ad ambienti criminali e certo non ricche. I rapitori si misero in contatto con i Sorbara per telefono: fu una donna ad avanzare la prima richiesta, le altre telefonate, invece, le fece un uomo mai identificato. Alfredo fu costretto a scrivere delle lettere ai congiunti con le quali li invitava a pagare: il ruspista veniva tenuto legato a delle catene. In una missiva scrisse: «Non ce la faccio più a stare legato come un maiale». Ai Sorbara venne inviata una foto dell’ostaggio, malmesso, con la barba lunga e le catene che gli cingevano il corpo. Nelle missive, l’uomo indicò pure le due parole d’ordine con cui i familiari avrebbero riconosciuto i sequestratori al telefono: la prima era “Napoli Roma”, la successiva “Napoli Salerno”. Dalla iniziale richiesta di cinque miliardi i sequestratori scesero prima a tre miliardi e, poi, a 780 milioni di lire. Quest’ultima cifra corrispondeva alla somma che il piccolo comune, di cui il fratello della vittima era sindaco, aveva ricevuto per eseguire dei lavori. «L’ultima notizia che abbiamo ricevuto di Alfredo ancora vivo» racconta Bartolomeo Sorbara «fu una foto in cui lui reggeva la Gazzetta del Sud, poi più nulla. Noi non pagammo alcun riscatto e, d’altronde, non avremmo potuto farlo». Alfredo venne infatti ucciso dai suoi carcerieri che si liberarono del cadavere sotterrandolo chissà dove. Il due maggio del 1985 a Mammola venne compiuta una strage: furono uccisi Felice Ferraro, 49 anni, la figlia sedicenne, Nunziata, prima ferita alla gamba e poi finita con un colpo alla testa e un agricoltore Pasquale Sorbara, 63 anni, solo omonimo del rapito. Si sospettò che la strage potesse essere collegata alla gestione del sequestro ma la pista investigativa non trovò conferme. Il primo ottobre del 1985 il giudice istruttore di Palmi, Giuseppe D’Uva, ordinò invece l’arresto di 12 persone accusate di aver sequestrato ucciso Alfredo Sorbara occultandone il cadavere. Gli incriminati vennero poi tutti prosciolti.
«Nel 1994» racconta Bartolomeo Sorbara «abbiamo ricevuto una lettera anonima in cui ci dicevano che i resti di mio fratello erano in una zona di campagna di Mammola. Andammo con i carabinieri, furono fatti degli scavi ma non vennero ritrovati. Io, mio fratello Michelangelo e mia sorella Lorenza vorremmo finalmente sapere di più sulla fine del nostro congiunto».

Caricamento commenti

Commenta la notizia