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Corigliano Rossano, azienda bruciata per vendetta. Decisivo il dna dell’esecutore

Il Tribunale di Castrovillari ha condannato tutti e tre gli imputati per il maxi incendio del 24 maggio dello scorso anno ai danni della Socas, la ditta di Corigliano Rossano specializzata nel soccorso stradale, nonché auto-carrozzeria, officina e deposito giudiziario accreditata ubicata in contrada Fabrizio nell’area urbana di Corigliano.
Si tratta dei fratelli Giovanni Chiaradia, di 54 anni, e Piero Francesco Chiaradia, di 48 anni, ritenuti i mandanti dell’azione delittuosa, e di Marco Bonafede, 30 anni, accusato di essere stato l’esecutore materiale del rogo che ha mandato in fumo la carrozzeria.
La Procura contestava l’incendio doloso aggravato dal metodo mafioso. Giovanni Chiaradia è stato condannato a 4 anni, 5 mesi e 10 giorni di reclusione, Piero Francesco Chiaradia e Marco Bonafede a 4 anni di reclusione ciascuno. A ciò si aggiunge la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di 5 anni ciascuno e la misura di sicurezza della libertà vigilata per 2 anni dopo l’espiazione della pena.
La sentenza contempla anche la condanna a risarcire i danni subiti dalla società, da quantificarsi in separata sede di giudizio civile, che dovrebbero superare la cifra del mezzo milione di euro. Il punto di svolta processuale è stata la “prova” che il pubblico ministero ha portato in aula e che ha collegato i tre all’azione incendiaria dando nome e cognome alla terza persona intercettata assieme ai due fratelli mentre si rifornivano di benzina poco prima del divampare dell’incendio collocandolo anche sul luogo del rogo. Proprio lì, tra cenere e pezzi di lamiera ancora fumanti, i carabinieri del reparto territoriale di Corigliano Rossano hanno trovato un paio di auricolari su cui erano ancora presenti delle tracce biologiche che sono state comparate con il dna dei tre imputati ed è emersa una sovrapponibilità con i dati genetici di Marco Bonafede. Successivamente alla presentazione di questa prova “schiacciante”, prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio, Giovanni Chiaradia ha chiesto di poter rendere delle dichiarazioni spontanee confessando in sostanza di essere stato il mandante dell’incendio.
In base alle risultanze investigative da parte dei carabinieri, basate soprattutto su una serie di intercettazioni, le fiamme alla carrozzeria sarebbero state appiccate dopo il rifiuto del titolare della Socas di sistemare all’istante della richiesta l’autovettura proprio di Giovanni Chiaradia. Questi avrebbe manifestato al fratello l’intenzione di “dare una lezione” chi si era permesso di fargli questo sgarro. La circostanza particolare sarebbe emersa, come detto, da alcune intercettazioni captate dai militari, poiché i due fratelli da qualche tempo erano sotto controllo da parte dei carabinieri per un’altra indagine, ossia quella relativa all’omicidio di Pasquale Aquino e al tentato omicidio di Cosimo Marchese.

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