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“Malapigna”, i veleni della Piana davanti al Tribunale di Palmi

Dopo le condanne in abbreviato, avviato il processo con il rito ordinario. Un’inchiesta durata anni. Tra i 19 imputati alla sbarra ci sono Rocco Delfino e l'avv. Giancarlo Pittelli, che risponde di concorso esterno

In abbreviato solo condanne, la fase cautelare che blinda l'inchiesta e adesso il processo in ordinario in corso a Palmi.
L'operazione denominata “Mala pigna”, per il momento, sta procedendo sui binari tracciati dalla Dda di Reggio Calabria. L'impianto accusatorio, infatti, ha retto al vaglio del gup, che ha condannato i 5 imputati che avevano scelto il rito abbreviato, e quello della Cassazione che, in fase cautelare, ha rigettato tutte le richieste di scarcerazione da parte dei difensori.
Il procedimento con il rito ordinario, che si sta celebrando davanti al tribunale di Palmi, è solo all'inizio. Nelle poche udienze già celebrate è stato sentito come testimone il capitano dei carabinieri del Nucleo investigativo di polizia ambientale, agroalimentare e forestale (Nipaaf) Cristian Bellè che sta relazionando sulla copiosa informativa che è alla base dell'inchiesta “Mala pigna”.
Tra 19 imputati alla sbarra nel processo di Palmi, ci sono Rocco Delfino e l'avvocato Giancarlo Pittelli, figure di primo piano nel procedimento intentato dalla procura antimafia di Reggio Calabria. Il primo è considerato il capo promotore dell'associazione mafiosa, alle strette dipendenze del clan Piromalli di Gioia Tauro; l'ex parlamentare di Forza Italia, imputato anche nel maxiprocesso “Rinascita Scott”, è accusato di concorso esterno. Secondo la Dda, Pittelli avrebbe assistito Delfino su espressa richiesta del boss Pino Piromalli, scarcerato lo scorso anno dopo più di 20 anni di carcere.
Non è solo un'inchiesta su reati ambientali e la 'ndrangheta, l'operazione “Mala pigna” è a suo modo una sorta di paradigma del modo in cui i clan gestiscono i territori di riferimento. Un territorio, quello della piana di Gioia Tauro, che sarebbe stato avvelenato dalle imprese gestite dalla famiglia Delfino, nonostante che dal 2008 erano finite nell'occhio della magistratura. Rocco Delfino e i suoi familiari, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, avrebbero continuato a gestire la loro impresa finita sotto sequestro, usando i mezzi e il cantiere dell'azienda violando i sigilli apposti dall'autorità giudiziaria.

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