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'Ndrangheta e caccia ai ghiri, il significato di un rito ancestrale. Ecco dove è praticata in Calabria

La Lav stima che nel solo comune di Guardavalle vengano catturati 20mila animali l’anno, rivenduti a 5 euro l’uno

La caccia ai ghiri ha origini lontane e nella cultura 'ndranghetista ha significati ancestrali. L’uso di cibarsene, bollito nel sugo o arrosto, risale ai legionari romani, che si portavano dietro contenitori in cui allevavano i roditori per avere a disposizione cibo per i momenti di bisogno.

Nella provincia di Reggio, dove i carabinieri hanno sequestrato 200 animaletti congelati, il consumo del ghiro è una sorta di celebrazione di un simbolo di potere. Portare piatti a base di ghiri in incontri organizzati per scambiarsi favori vuol dire legare gli altri con un patto al quale è difficile sottrarsi. Più volte nelle intercettazioni della malavita della Locride si parla di cene pacificatrici a base di ghiri tra cosche contrapposte.
La caccia al ghiro è diffusa in tutta la Calabria: nel Cosentino sul versante ionico (Rossano), sull'altipiano della Sila (San Giovanni in Fiore) e sul versante tirrenico (Orsomarso). In provincia di Crotone nella zona di Castelsilano (Sila Piccola). Ma è nelle «Serre», dove si incrociano le province di Catanzaro, Vibo Valentia e Reggio Calabria, che si trova la tradizione più radicata, nel territorio di Guardavalle, Santa Cristina dello Ionio, Nardodipace, Serra San Bruno, Stilo e Bivongi. La Lav stima che nel solo comune di Guardavalle vengano catturati 20mila animali l’anno, rivenduti a 5 euro l’uno.

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