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Il superboss Nicolino Grande Aracri e la valigetta usata per isolare i cellulari

I “trucchi” tecnologici di Grande Aracri

La “valigetta”. Il capocrimine della Calabria centrosettentrionale, Nicolino Grande Aracri, usava ogni mezzo per sfuggire alle attenzioni delle forze dell’ordine. Le carcerazioni patite, l’esperienza accumulata negli anni passati a schivare intercettazioni telefoniche e microspie, l’avevano reso ossessivamente attento a non compiere passi falsi. E al classico metodo di tenere lontani i cellulari dai luoghi in cui si svolgevano colloqui importanti e alla mania di “bonificare” le autovetture sulle quali si muoveva, il padrino di Cutro - diventato da poco più di un mese aspirante collaboratore di giustizia - aveva aggiunto uno “strumento” di assoluta avanguardia caro ai narcotrafficanti messicani come Joaquin Guzman Loera detto “el chapo” o al potentissimo Nemesio Oseguera Cervantes inteso come “el mencho”. Di che si tratta? Di un inibitore di comunicazioni: roba d’ultima generazione. Il superboss girava con un picciotto “tecnico” al seguito che tirava fuori l’aggeggio appena veniva raggiunto il luogo previsto per l’incontro. Era contenuto in una valigetta scura e, appena messo in funzione, isolava l’intera area rispetto ad ogni tipo di comunicazioni.

I telefonini risultavano irraggiungibili e le microspie smettevano di trasmettere il loro segnale. Se non fosse vero sembrerebbe l’invenzione di uno sceneggiatore cinematografico. A raccontare della “valigetta” è stato nei giorni scorsi l’imprenditore Giovanni Notarianni, testimone di giustizia, citato al processo “Malapianta” che ricostruisce davanti al Tribunale di Crotone gli affari della cosca di San Leonardo di Cutro guidata da Alfonso Mannolo. Notarianni nel raccontare le proprie disavventure giudiziarie, ha svelato di un suo incontro con Grande Aracri arrivato con sette uomini di scorta e il misterioso “inibitore”. Lo strumento elettronico venne messo in funzione e si rivelò tanto efficace che la sorella dell’imprenditore vessato tentava di raggiungerlo telefonicamente senza riuscirvi perchè il cellulare del fratello risultava “spento”.

Eppure, nonostante la “prudenza” tecnologica mostrata, il capobastone non aveva pensato a tenere alta l’attenzione nella sua abitazione. La Direzione distrettuale di Catanzaro aveva infatti piazzato “cimici” nella tavernetta di casa del boss, dove Nicolino Grande Aracri riceveva “compari” di ’ndrangheta e faccendieri per decidere strategie criminali e affari. Grazie alle intercettazioni realizzate nell’immobile è stato possibile ai magistrati guidati da Nicola Gratteri, ricostruire l’incredibile ragnatela di rapporti tenuta da “don Nicolino”.

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