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L'ultimo atto della faida, la vendetta di Bruni

L'ultimo atto della faida, la vendetta di Bruni

Agli inizi del nuovo millennio Cosenza era ancora una gigantesca fornace che vomitava miasmi di piombo e di morte. Una terra ostile nella mani di boss sanguinari, piegata dal racket, inondata dalla droga, sprofondata nel terrore, schiacciata dalle regole acide della ’ndrangheta. Per lunghi anni la gente è rimasta prigioniera di una forza inesauribile che respirava angoscia, rabbia, umiliazione, oblio. Nel luglio del 2004 l’ultimo focolaio della guerra, un ultimo agguato nel centro cittadino, per spegnere definitivamente l’odio. Non uno dei tanti omicidi di mafia censiti in quegli anni, ma la vendetta familiare d’un giovane boss. Un sospetto che è stata la strada maestra percorsa sin dalle prime ore dalla Dda di Catanzaro. Uno scenario investigativo a senso unico che è stato esplorato con determinazione dagli “007” della Dia di Catanzaro, guidati dal vicequestore Antonio Turi. E quattordici anni dopo è stato chiuso il cerchio intorno a presunti killer e mandanti dell'agguato a Francesco Marincolo, uno dei sicari del clan Lanzino. L’inchiesta perfetta del procuratore distrettuale Nicola Gratteri e del pm antimafia Camillo Falvo è giunta a destinazione ieri con l’esecuzione di un’ordinanza applicativa di misure cautelari nei confronti di quattro persone, tutte di Cosenza. Si tratta di: Giovanni Abbruzzese, 59 anni; Mario Attanasio, 46; Carlo Lamanna, 51; e Umile Miceli, 52. Tutti sospettati d’aver avuto un ruolo nell’omicidio. L’esecutore materiale non c’è più, è morto qualche anno fa. Sì, l’assassino sarebbe Michele Bruni, l’ex capo di un clan che non esiste più. Cancellato dalle fughe e dagli arresti. L’ex boss uccise Marincolo, ritenuto tra i responsabili della morte di suo padre, Francesco “Bella bella”, cinque anni prima (il 29 luglio del 1999), all’uscita dal carcere, a bordo della sua auto condotta dall’amico autista nonchè impresario delle pompe funebri. Il patriarca dei Bruni lavorava alla costruzione d’un clan potente per contrapporsi allo strapotere del gruppo Cicero-Lanzino-Chirillo. Ma non ebbe il tempo di combattere quella guerra. E allora, toccò a Michele mettersi alla guida di una famiglia che era nel cuore della ’ndrangheta. In questo scenario evolutivo si cementarono i legami col potente casato degli zingari fino a formare un asse criminale temuto in tutto il Cosentino. E proprio con i nomadi, rappresentati da Giovanni Abbruzzese sarebbe stata decisa l'eliminazione di Marincolo, uno degli uomini che aveva portato il lutto a casa dei Bruni. Per mettere a fuoco la genesi del delitto, i superdetective della Dia si sono dovuti calare nelle macerie di quegli anni con l'aiuto dei collaboratori di giustizia. Gli ex malacarne Adolfo Foggetti, Daniele Lamanna (entrambi coinvolti a piede libero nell’inchiesta sull’omicidio), Franco Bruzzese, Edyta Kopaczynska, Vincendo Dedato e Carmine Cristini, sono diventati la chiave per arrivare agli indagati fornendo i temi per la ricostruzione che è stata sigillata attraverso puntuali riscontri convergenti all'interno di una trama e di un movente che hanno convinto il pm antimafia Falvo.

Il delitto Marincolo sarebbe stato già deciso alcuni mesi prima. Serviva a placare la sete di vendetta di Michele Bruni. Il giorno scelto per l’esecuzione fu il 28 luglio, la vigilia del quinto anniversario della morte di Francesco “Bella bella”, una data non casuale all’interno dei simbolismi che riempiono i codici di sangue della ’ndrangheta. E così fu deciso. Ad Umile Micieli sarebbe stato affidato il compito di studiare i movimenti del bersaglio. Avrebbe dovuto acquisire tutte informazioni sulle abitudini di Marincolo, i suoi percorsi quotidiani. Anche quella mattina s’era mescolato alla folla di via Panebianco. Da lì la vittima transitava sempre. E quando è arrivato partì il segnale telefonico per il commando. Marincolo, intanto, fermò l’auto in doppia fila davanti a un bar, scese salutò alcuni avventori, un imprenditore, un maestro d’arti marziali, fermandosi a paralre col cognato di uno dei colonnelli della vecchia ’ndrangheta, Gianfranco Ruà. L’attesa lunga per un caffè spinse entrambi a spostarsi a bordo di un’auto verso un altro bar. Ma poco dopo arrivò la moto con i killer: alla guida ci sarebbe stato Carlo Lamanna, seduto dietro con una 9x21 saldamente stretta nella mano destra, Michele Bruni, e fece fuoco. Dopo 14 anni la verità.

La ricostruzione

È stato l’uomo che era con Marincolo in auto a raccontare la dinamica dell’agguato. Un’azione ricostruita poi al computer dai detective della Dia. La Fiat 500 guidata dalla vittima venne agganciata in via Lanzino da quella moto Yamaha con Carlo Lamanna alla guida e Michele Bruni seduto dietro. Marincolo venne centrato al petto e al braccio e morì sul colpo. L’amico rimase ferito e riuscì a raggiungere l’ospedale. La moto e la pistola sarebbero state procurate da Attanasio.

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