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Quei figli strappati alla famiglie mafiose

Quei figli strappati alla famiglie mafiose

La riflessione di Vincenzo Bertolone,  Arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace

Non fa una piega il commento di Piero Angela, giornalista che non ha bisogno di presentazioni. Indica la strada maestra nell’educazione della prole, dalla quale tuttavia spesso si devia, con conseguenze che fino a qualche decennio fa sembravano impossibili e rimedi altrettanto impensabili, ma oggi necessari, anche se dolorosi, destinati a lasciare un segno e a rendere opportuna una profonda, sincera riflessione. Negli ultimi giorni i media ci hanno fatto conoscere un provvedimento delle autorità giudiziarie napoletane: l’allontanamento dalle proprie famiglie di sette bambini dai quattro ai quattordici anni d’età, perché i loro genitori spacciavano droga e vivevano in odor di camorra. Per evitare che i minori imboccassero la malavia dello smercio di cocaina, ne hanno ordinato il collocamento in comunità protette. Identica misura era stata avanzata nella lotta al terrorismo. Boris Johnson, da sindaco di Londra, nella primavera del 2014 aveva affidato il suo pensiero al Daily Telegraph: «I figli degli integralisti islamici vanno tolti ai genitori e trattati come vittime di abusi sessuali. Per evitare che siano indottrinati e diventino potenziali kamikaze bisogna affidarli a strutture statali protette». E giù titoloni e analisi - in tutta Europa - per motivare la disumanità e l’antigiuridicità che connoterebbero una tesi che, a ben guardare, in Italia vanta radici storiche. La sua comparsa nelle cronache, nel 1997, fu per lo più stroncata, per esempio da Pierluigi Vigna, all’epoca a capo della Procura nazionale antimafia: «La mafia ha costretto a una sorta di espatrio 2.000 minori, figli di collaboratori di giustizia. Togliere i bambini anche ai genitori mafiosi non sembra praticabile». Poi l’idea ha preso quota.

Nel 2008, ad esempio, la Procura di Reggio Calabria ha ottenuto la decadenza dalla potestà genitoriale del boss Giuseppe De Stefano: «È latitante, è un cattivo padre». Ma a tenere banco, in materia, è il Tribunale dei minorenni reggino: in un biennio sono stati una trentina gli adolescenti «strappati ad ambienti familiari impregnati di mafia», ha spiegato persino alla Bbc il presidente Roberto Di Bella. «L’obiettivo è mostrare a questi giovani che c’è un mondo diverso da quello in cui sono cresciuti, sperando che, raggiunta la maggiore età, dicano liberamente no al crimine». Come del resto, con istinto di madre, aveva tentato di fare Lea Garofalo, che in nome del futuro della figlia non aveva esitato a denunciare il marito e andare via di casa, pagando con la vita il prezzo di tanto coraggio. Ma troncare rapporti familiari, anche quando è giusto ed opportuno, non è facile come girare un interruttore, specialmente quando i buoni propositi di rigenerazione umana vengono poi stroncati dalle lacune di uno Stato preoccupato più dall’aspetto economico che da quello sociale. E questo non fa che accrescere il dubbio: i figli sono di chi li cresce o di chi giudica? Fortunatamente, la risposta è semplice: di chi li ama.

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