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Pentito: il procuratore Caccia ucciso perché "troppo onesto"

'Ndrangheta, un arresto per l'omicidio Caccia

La spina nel fianco. Bruno Caccia era un magistrato «inavvicinabile». E la sua rettitudine, lo scrupolo con cui seguiva ogni inchiesta assegnata al suo ufficio, l’avevano trasformato in un ostacolo insormontabile. Perché la vigilanza esercitata dal procuratore di Torino impediva “inciuci” con toghe più “disponibili” e metteva in pericolo affari già avviati. Fu per questa ragione che il giudice venne assassinato la sera del 26 giugno del 1983. Gli spararono due killer della ’ndrangheta per ordine di Domenico “Mimmo” Belfiore, capo dell’omonimo clan originario di Gioiosa Ionica.
Il movente del delitto “eccellente” è stato confermato ai magistrati inquirenti di Milano dal “rampollo” pentito d’una importante famiglia di mafia partita da Platì e diventata punto di riferimento in Piemonte. Si chiama Domenico Agresta, ha 28 anni e negli ambienti della criminalità calabrese è conosciuto come “Micu Mcdonald”. Il ventottenne, già condannato con sentenza definitiva per un omicidio compiuto nel 2008 nella terra che fu dei Savoia, ha indicato i nomi dei due presunti sicari del Procuratore di Torino. Uno sarebbe Rocco Schirripa, panettiere della locride ma residente da decenni nel Torinese, già sotto processo per il crimine; l’altro, è ancora sconosciuto all’opinione pubblica perché oggetto di delicate indagini da parte della magistratura inquirente di Milano. Il collaboratore di giustizia parla delle ragioni a monte del “delitto eccellente” affermando di averle apprese, in carcere, da Placido Barresi, cognato di Belfiore. Ecco il racconto di Agresta reso il 22 novembre 2016: «Si è messo a parlare di Caccia e ricordo disse che il procuratore era stato ucciso perché era una persona inavvicinabile, nel senso di incorruttibile. Ricordo che fece riferimento a dei processi, senza specificare quali, per cui il procuratore Caccia era stato “avvicinato” da delle persone che erano andate a parlargli in ufficio e lui, ricordo questa frase di Barresi, gli aveva “sbattuto la porta in faccia”. Barresi dceva che il procuratore gli stava sempre addosso, che “avevano cercato di parlargli” ma inutilmente». L’ex malavitoso ha riferito dei rapporti intercorsi tra la sua famiglia e quella dei Belfiore. «Rapporti storici» ha detto «che risalivano a mio nonno che era stato l’unico del “locale” di Volpiano ad essere stato invitato al matrimonio di Domenico Belfiore». L’esistenza di questi legami aveva probabilmente indotto Barresi a fare al giovane degli Agresta la confidenza sull’omicidio Caccia
La causale del crimine indicata dal ventottenne coincide con quella rivelata agli investigatori il 22 maggio del 1986 da Ciccio Miano, capo dell’omonimo clan mafioso di origine catanese, che aveva raccolto e registrato nel carcere di Torino le confidenze fattegli proprio da Domenico Belfiore. «Mimmo si è dichiarato mandante dell’omicidio e, quanto al movente, ha descritto la situazione venutasi a creare nella Procura di Torino dal momento in cui a capo era stato chiamato Caccia. In sostanza a Caccia veniva attribuita la responsabilità di infilarsi in tutti i discorsi della procura e di avere tenuto un atteggiamento di estremo rigore». Anche il fratello di Ciccio Miano, Roberto (pure lui pentito) confermò all’allora pm di Milano, Francesco Di Maggio: «Non era possibile corrompere Caccia...Non poteva essere comprato ed era accanito contro la delinquenza organizzata e molte volte si appellava anche contro gli imputati che erano scarcerati per motivi di salute». Con il Procuratore “galantuomo”, infatti, le perizie di favore non funzionavano...

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