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Giglio, l’imprenditore di fiducia di Grande Aracri

Giglio, l’imprenditore di fiducia di Grande Aracri

I manager della ’ndrangheta. Imprenditori apparentemente credibili, con buone entrature nella politica nella burocrazia e grandi disponibilità finanziarie. Le ultime inchieste delle Dda di Catanzaro e Reggio Calabria ne tratteggiano la figura dimostrando come, in questi anni, le loro aziende abbiano conquistato appalti e forniture di servizi pubblici godendo dell’ombrello protettivo di boss e picciotti. Lo schema di conquista attuato dalle cosche in Calabria attraverso l’astuto utilizzo di queste “teste di ponte” capaci di contrattare con le amministrazioni territoriali è stato esportato in Settentrione. In Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna le più importanti consorterie regionali hanno condizionato i sistemi economici inserendosi nel settore delle costruzioni e dei trasporti. Quanto scoperto dai magistrati inquirenti a Gioia, Reggio, Cetraro, Crotone e Cosenza è stato replicato, con medesima efficacia, in Emilia. Nicolino Grande Aracri, padrino di Cutro e “capocrimine” della Calabria mediana e settentrionale, aveva egemonizzato una vasta area della terra famosa per la mazurka e la piadina. E l’aveva fatto utilizzando un imprenditore: Pino Giglio, 49 anni, salito al nord nel 1996 e passato, nel 2009, armi e bagagli con il “mammasantissima” cutrese. Il 49enne crotonese è considerato dalla Dda di Bologna uno dei riferimenti imprenditoriali ed economici di Grande Aracri che aveva messo radici sulle rive del Po tra Brescello e Reggio Emilia. È stato lo stesso Giglio, in carcere dal 2015, a confermarlo nel corso del maxiprocesso “Aemilia” al termine del quale è stato condannato a 12 anni e 6 mesi di carcere. L’ha raccontato ai pm antimafia Marco Mescolini e Beatrice Ronchi che hanno trasmesso poi molti verbali d’interrogatoriio al procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri e all’aggiunto Vincenzo Luberto. Già, perché Giglio parla d’affari, riciclaggio e investimenti in Italia e all’estero. Il parallelismo della sua storia con quelle di altri imprenditori collusi è evidente. Il “modello” emiliano prevedeva l’acquisto in nero a metà prezzo di materiali per l’edilizia rivenduti poi sul mercato legale a prezzo pieno da società appositamente create che fatturavano tutto. L’alto fatturato serviva poi per presentarsi alle banche locali per ottenere copiosi finanziamenti. Subito dopo le compagini societarie venivano avviate al fallimento ed i soldi incassati spediti sui bus di linea in Calabria per essere “ripuliti”. Compiuto il “lavaggio” venivano investiti in settentrione nell’acquisto di alberghi e night, o utilizzati per compiere operazioni immobiliari in Algeria. Un’altra parte del denaro serviva a fare usura: i soldi venivano prestati ad imprenditori in difficoltà che, col tempo, finivano con il perdere il controllo delle loro aziende. Con “mamma’ndrangheta” i sogni di gloria finiscono sempre all’alba. Chi fa affari con i boss ci rimette le penne.

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