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Il Tdl conferma l’impianto accusatorio della Dda

Il Tdl conferma l’impianto accusatorio della Dda

Restano tutti in carcere. Le accuse formulate dai magistrati antimafia della Dda reggina sono solide e le esigenze cautelari nei confronti degli indagati fondate. Il Tribunale della Libertà di Reggio Calabria, presieduto dal giudice Natina Pratticò, ha esaminato i ricorsi presentati dagli avvocati del senatore Antonio Caridi, dell’ex consigliere e assessore regionale Alberto Sarra, e degli avvocati Paolo Romeo e Giorgio De Stefano, e ieri ha rigettato le loro richieste di scarcerazione. Al momento, quindi, non ci sono le condizioni per rimettere in libertà gli indagati né sostituire la detenzione in carcere con una misura più tenue.

La “carezza”

Richieste difensive rigettate in toto per quanto riguarda le posizioni processuali degli avvocati Paolo Romeo e Giorgio De Stefano e anche per quanto riguarda il sen. Antonio Caridi. Per quest’ultimo, infatti, il Tdl ha confermato quanto già disposto dal gip che aveva riqualificato il reato del senatore escludendo l’aggravante che fosse uno dei promotori e organizzatori della cupola riservata degli invisibili. L’unica “carezza” il Tdl reggino l’ha riservata al Alberto Sarra al quale è stata esclusa – così come il gip aveva fatto per Caridi – l’aggravante che sia uno dei promotori della famigerata cupola riservata della ’ndrangheta. Questo, in estrema sintesi, il “succo” della decisione assunta dal Tdl reggino. Per un esame più approfondito, bisognerà attendere le motivazioni che stanno alla base della decisione dei giudici e che la presidente Natina Pratticò renderà pubbliche tra 45 giorni.

Seconda conferma

Dunque, dopo quella del giudice per le indagini preliminari Domenico Santoro, giunge anche la pronuncia del Tdl a confermare che il castello accusatorio, costruito con pazienza certosina dal pm antimafia Giuseppe Lombardo, poggia su solide fondamenta. I Carabinieri del Ros hanno “riletto” 52 procedimenti penali mettendoli in un unico contesto e riunito i vari pezzi di un complesso e mostruoso puzzle che porta, appunto, fino alla cupola segreta formata dagli “invisibili” della ’ndrangheta di “Mamma Santissima”.

I pentiti

Già il collaboratore di giustizia Giuseppe Lombardo, il 24 marzo 1997 riferiva ai magistrati di essere a «conoscenza dell’esistenza di una “cupola” che governa tutti gli interessi illeciti nella città e che è costituita da esponenti della mafia, della politica, della massoneria e dell’imprenditoria». Una cupola nata «dopo la pacificazione, esattamente tra il 1992 e il 93», con Pasquale Condello in veste di «capo assoluto». Lombardo precisava, inoltre, che di tale cupola mafiosa nuovo «referente politico è l’onorevole Amedeo Matacena, il quale rappresenta il mondo politico all’interno della cupola mafiosa».

E lo storico pentito Filippo Barreca aggiunge che «le quotazioni dell’avvocato Paolo Romeo, nel periodo della mia detenzione a Palmi, erano in vertiginosa crescita poichè si sapeva che era stato proprio l’avvocato Romeo uno dei promotori delle trattative di pace. L’avvocato Romeo era collegato con l’avvocato Giorgio De Stefano ed entrambi erano collegati con settori della politica siciliana e nazionale. Devo precisare che l’intervento dell’avvocato Romeo fu anche determinato della sua consapevolezza di essere uno dei bersagli nella allora imperversante guerra di mafia. Mi risulta, infatti, che si erano tenute riunioni per assassinarlo da parte del gruppo avverso dei destefaniani».

I riservati

Il pentito Nino Fiume, nel processo Meta, ha rivelato che il sistema incentrato sulla famiglia De Stefano faceva leva su «persone riservate», cioè chi operava in tale ambito «per le persone non era un affiliato, ma per noi era come se fosse affiliato, perché era una di quelle persone a disposizione» e «lavorava nell’ombra», costituendo i «contatti… cosiddetti… “nobili”», in ordine ai quali Giuseppe De Stefano era solito dire «Questo ‘ndi l’amu a tiniri ‘mmucciatu”: cioè, «Questo dobbiamo cercare sempre di tenerlo più... più... meno in vista possibile”… che, anche se non sparavano, erano dentro lo stesso». Erano soggetti egualmente da reputare intranei alla cosca, «perché aiutavano i De Stefano in tutti quelli che erano discorsi economici ed erano tanti altri». Conclusione scontata: costoro costituivano «la parte più evoluta della ’ndrangheta». Tramite questi, infatti, Giuseppe De Stefano poteva «interagire con altre persone, avvalendosi di persone al di fuori di ogni sospetto... Per non apparire più di tanto». Una sorta di ossessione – chiosa il gip –, quella dei De Stefano, a valersi di uomini che non dovevano apparire. Dovevano essere invisibili...

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