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Gioco online, 41 arresti
e sequestro da 2 mld

La longa manus della 'ndrangheta era arrivata anche alle scommesse online individuate come il sistema ottimale per riciclare il denaro proveniente dagli affari illeciti - in particolare il narcotraffico - ma anche per incrementare i già miliardari introiti. A portare alla luce quello che da tempo era un sospetto più che fondato è stata l'operazione "Gambling", coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria e condotta da tutte le forze di polizia della città: carabinieri, Guardia di finanza, Squadra mobile e Dia, insieme a Scico e Nucleo speciale frodi tecnologiche di Roma della Finanza di Roma. Un'inchiesta - condotta dai pm Giuseppe Lombardo, Stefano Musolino, Sara Amerio e Luca Miceli - che ha portato a 41 arresti, ma soprattutto al sequestro in tutta Italia e all'estero di beni per due miliardi di euro: 11 società estere, 45 imprese operanti sul territorio nazionale, 1.500 punti commerciali, 82 siti nazionali e internazionali e innumerevoli immobili. Un patrimonio messo su anno dopo anno dalle cosche grazie al reinvestimento dei proventi di un'attività illecita partita con le minacce al titolare di un punto scommesse e cresciuta poi a dismisura. Il sistema, tutto sommato, era semplice nella sua esecuzione, ma estremamente complicato da individuare. Le cosche reggine, considerate nella loro unitarietà, avevano creato un sistema parallelo di scommesse basato sul pagamento delle puntate in contanti, sistema quest'ultimo vietato dalla legge, che impone la tracciabilità delle giocate e l'identificazione del giocatore. In sostanza, dietro le imprese schermo, che facevano apparire sussistenti i requisiti previsti dalla legge, è stata nascosta l'offerta al pubblico e la gestione di siti di poker e scommesse online che hanno consentito l'accesso al gioco illecito. Così facendo l'organizzazione si è sottratta al pagamento delle imposte, ottenendo lauti guadagni, ed in più ha riciclato un'enorme massa di denaro "sporco" - una stima del quale è di fatto impossibile - attraverso l'utilizzo di conti di gioco intestati a persone compiacenti o inconsapevoli. Sono nate così decine di società all'estero (Austria, Spagna e Romania e con una base stabile a Malta) - anche queste frutto del reinvestimento dei guadagni - e centinaia di siti di scommesse che, dietro un'apparente legalità, offrivano il doppio canale di puntate, quello telematico e legale e quello parallelo in contanti. Incaricato di gestire l'affare miliardario era Mario Gennaro, una quarantenne reggino cresciuto nel quartiere Archi e uomo, secondo gli investigatori, della potente famiglia dei Tegano, passato dal "rubare motorini perché non aveva i soldi per comprarsi le calze" - come ha detto di lui il pentito Francesco Ripepi, alias "Ciccio Tizmor", in una precedente inchiesta - a capo, promotore e costitutore di un'articolata organizzazione. Dai motorini, Gennaro è diventato un potente uomo d'affari: country manager della società maltese Betuniq - come risulta sul sito - ma addirittura proprietario occulto, secondo gli inquirenti, della società, godendo di una "sospetta, illimitata e ingiustificata, disponibilità di danaro". In definitiva, per gli investigatori, la 'ndrangheta ha promosso "Mariolino da Archi", quello allevato dai Tegano, al manager Gennaro, dominus di Betuniq che, in questa veste, ha rappresentato gli interessi non più della sola cosca originaria di appartenenza, ma dell'intera 'ndrangheta provinciale infiltratasi nel mercato delle scommesse online per la bramosia di mettere le mani su un sistema che assicura lauti guadagni, oltre ad agevolare il riciclaggio. E' stato grazie a Gennaro - da tempo trasferitosi a Malta - che le cosche hanno creato numerose società estere di diritto maltese con le quali gestivano i traffici. E quando il decreto Monti escluse la sua società dalle concessioni governative, Gennaro non esitò a ricorrere a tutte le giurisdizioni ordinarie e amministrative italiane, per approdare addirittura alla Corte di Giustizia Europea, per perorare il caso della società, ottenendone ragione. Una ragione adesso vanificata dall'inchiesta della Dda reggina.

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