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Il nonno del piccolo “Cocò” era pronto a pentirsi

 La voce dal di dentro. Che viene dal dolore e dallo scempio, dall’impotenza e dalla rabbia. Battista Iannicelli è il fratello di Giuseppe Iannicelli, ammazzato con due colpi di pistola alla testa il 16 gennaio del 2014. Era sull’autovettura guidata da “Betty” Taoussa, 27 anni, magrebina, quando due sicari fecero cenno alla donna di fermare il veicolo. Sul sedile posteriore c’era Nicolino Campolongo, detto “Cocò”, tre anni appena compiuti, nipotino prediletto di Iannicelli. Il primo killer sparò alla donna, l’altro, quasi contestualmente, all’uomo. Il bimbo saltellò terrorizzato nell’abitacolo, come un uccellino spaventato, prima che l’assassino che aveva ucciso la marocchina aprisse lo sportello posteriore per esplodergli, a bruiciapelo, due colpi alla testa. Il corpicino di “Cocò” è poi quasi finito in cenere insieme con quelli del nonno e della straniera. L’auto su cui si trovavano è diventata la loro prima tomba. Una tomba di ferri anneriti dalle fiamme appiccate dagli attentatori. Dopo la morte del congiunto, Battista Iannicelli ha reso dichiarazioni alle forze dell’ordine. Raccontando particolari che riguardavano la vita dello sventurato fratello. Il verbale con quelle dichiarazioni è allegato agli atti dell’inchiesta “Gentleman” sviluppata dalla Guardia di finanza contro la cosca degli “zingari” operante nell’area settentrionale ionica della Calabria e nella parte meridionale della Basilicata. Una inchiesta coordinata personalmente dal procuratore capo della Dda di Catanzaro, Antonio Vincenzo Lombardo e condotta da un pool di magistrati composto dai procuratori aggiunti Giovanni Bombardieri e Vincenzo Luberto e dal pm antimafia Domenico Guarascio. Battista Iannicelli rivelerebbe nella deposizione che il fratello era stato più volte “convocato” nella frazione Timpone rosso di Cassano, sede logistica della consorteria criminale, per via di “dissapori” legati ad affari illeciti. A dire il vero, l’uomo poi vittima dell’agguato costato la vita pure al nipotino, pare avesse anche in passato fatto discutere di sé. Accade quando, coinvolto nell’operazione “Katrina” scattata il primo febbraio del 2006 per ordine della procura di Castrovillari, ammise di aver avuto delle armi da Fioravante Abbruzzese, “reggente” dell’omonimo clan, assassinato nell’ottobre del 2002 a Cassano. Una circostanza non proprio in linea con l’obbligo dell’omertà che vige in certi ambienti. Negli atti d’indagine e secondo la ricostruzione fatta dal pm Baldo Pisani, Giuseppe Iannicelli veniva allora indicato come il capo di un gruppo di spacciatori di droga attivo nella cittadina sibarita. Un’accusa grave che gli costò in primo grado (rito abbreviato) la condanna a 10 anni e 8 mesi di reclusione. Ma la cosa più interessante che il fratello Battista avrebbe adesso raccontato agli investigatori riguarda una lettera. Una missiva mandata dall’uomo alla moglie, finita a sua volta in manette per spaccio di stupefacenti, nella quale l’uomo lamentava la mancanza di sostegno economico e, soprattutto, in cui paventava la possibilità di cominciare un rapporto di collaborazione con la magistratura. Giuseppe Iannicelli nel testo faceva riferimento, insomma, alla concreta possibilità di pentirsi. Dei contenuti della lettera, della quale però non sarebbe stata trovata traccia dagli inquirenti, potrebbe probabilmente essere filtrata qualcosa all’esterno. Una ipotesi, quest’ultima, presa in considerazione dai magistrati antimafia e forse corroborata dalle stesse dichiarazioni del testimone. Battista Iannicelli, in occasione della visita di papa Bergoglio a Sibari, nel giugno del 2014, aveva pubblicamente rivelato davanti alle telecamere di una troupe della Rai di aver offerto piena collaborazione alle forze investigative in relazione all’assassinio del fratello e del nipotino. 

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