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Due ergastoli per
il sangue versato
a Cassano

Il sangue sibarita. Versato sulle strade della rigogliosa pianura bagnata dallo Ionio e sorvegliata dal Pollino, scelta dai greci per costruirvi le loro “c olonie”. Un angolo di Calabria ricco ancora di affabulatoria bellezza e di vestigia della quasi millenaria civiltà magnogreca. Un antico “p a r a d iso” divenuto, in tempi moderni, il cuore degli interessi di gruppi mafiosi che si sono scontrati militarmente per appropriarsi di risorse e di traffici. La storia criminale della Sibaritide – da Sybaris, nome della “città degli ozi” cara alla letteratura classica – è raccontata in una serie di inchieste che partendo nel 1995 da “G alassia” arriva, passando per “Omnia”, “Timpone rosso” e “Ultimo atto”, ad “Arberia”. Il processo nato da quest'ultima indagine s’è concluso ieri in appello con la condanna di due presunti boss , due aspiranti padrini (ora pentiti) e un ex “azionista” dal grilletto facile. Il carcere a vita è stato inflitto dalla Corte d'assise di Catanzaro (presidente Rosario Barone) a Franco Abbruzzese, inteso come “Dentuzzo”, capo della criminalità nomade di Cassano; e a Nicola Acri, indicato dalla pubblica accusa come capobastone della ‘ndrina di Rossano. Tredici anni di carcere sono stati invece inflitti all’ex “mammasantissima” di Castrovillari, Antonio Di Dieco, ed al suo fidato ex killer, Cosimo Alfonso Scaglione, ai quali sono state riconosciute le diminuenti di pena accordate ai collaboratori di giustizia. Undici gli anni di pena comminati a Francesco Bevilacqua, inteso come “Franchino ‘i Mafarda”, già capo della criminalità nomade di Cosenza. L’uomo è peraltro reo confesso di altri barbari crimini compiuto nell’area settentrionale della Calabria tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio del Terzo millennio. Il più grave è la strage compiuta nel quartiere cosentino di via Popilia nell’ottobre del 2000. Una strage per la quale Bevilacqua non è mai stato giudicato e condannato nonostante l’agghiacciante confessione resa.

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