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Delianuova, l’arte di Pasqualina Tripodi: dare vita a rami secchi e pigne

La storia di Pasqualina Tripodi che col marchio d Pasly ha conquistato noti brand di gioielleria e Marta Marzotto

Nell’arte orafa di Pasqualina Tripodi nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. I suoi gioielli sono l’espressione più autentica della natura: un mondo in cui si avvicina con riverenza e rispetto. Lo si capisce quando raccoglie nei boschi i rami secchi caduti per terra, le pigne ormai stanche di restare attaccate agli alberi, le bacche, le pietre lungo il cammino. O mentre si prende cura dei semi che ha piantato nel suo orto dietro il suo laboratorio a Delianuova, in provincia di Reggio Calabria, come i granturchi australiani diventanti grandi e pieni di chicchi colorati, belli più delle gemme vere. I più potrebbero pensare che questo materiale abbia concluso il suo ciclo vitale, appassendo nella terra. Ma con Pasqualina Tripodi, conosciuta come Pasly artDesign, tutto diventa essenza di quelli che definisce “agrigioielli”. Termine incastonato in una nuova concezione della moda etica voluta da questa artigiana che, con tecniche innovative e sostenibili, trasforma i doni della natura in accessori originali. Un modo decisamente meno impattante di concepire il Luxury, in cui la dimensione etica ed estetica trovano il loro connubio perfetto.
«Amo la natura sin da piccola. Quando nel 2012 è nato il mio marchio, sapevo che il mio impegno più grande era sperimentare tecniche e materiali il meno impattanti possibile. Un aspetto sottovalutato infatti riguarda il grado di impatto dei gioielli che, rispetto ai vestiti, hanno maggiori ripercussioni negative sull’ambiente, specie per come vengono estratte le materie prime», spiega Pasqualina. Mentre ricongiunge i fili del passato, sembra di vederla piccina immersa a fantasticare nella camera da letto di sua nonna Mimma. «Ero attratta dalle cose che luccicavano, così tante volte mi avvicinano di nascosto al suo portagioie. Prendevo ciò che era custodito in quello scrigno. Non capivo come potessero luccicare così tanto. Mi è rimasta la curiosità, così da grande ho iniziato ad approfondirla». E come non assecondare poi l’eredità creativa del padre e del nonno, artigiano del ferro battuto?
«Ho iniziato con gli strumenti di officina di papà: morselli e pinze che ancora uso. In una scatola avevo tutto il materiale che disponevo sul tavolo di cucina. Lo apparecchiavo proprio e iniziava la creazione. Poi, sgomberavo tutto, rimettevo nella scatola e ricominciavo quando quell’angolo era libero».
Pasly sapeva che la strada era quella. «Quando ho iniziato l’Istituto d’arte e mi appassionavo sempre più, volevo creare qualcosa di mio da far indossare agli altri. Dopo il diploma come maestro orafo e maturità artistica in arte dei metalli e dell’oreficeria, mi sono laureata alla Sapienza di Roma per poi continuare con il master in ingegneria del gioiello al Politecnico di Torino. È stata linfa continua. Ho approfondito le tecniche e acquisito competenze nuove sulla tecnologia, il design e la progettazione 3D».
Lontano dalla Calabria cominciano le prime importanti collaborazioni con brand noti della gioielleria e il lavoro in un’azienda orafa di Valenza come progettista grafica per pezzi di gioielli. Tanti stimoli che Pasly – nome che le diede Marta Marzotto – raccoglie e fai suoi, per diventare sementi da piantare e da accudire nel suo giardino di vita. Poi il richiamo forte della Calabria. «Da quando sono tornata la mia vita è cambiata. Per un po’ di tempo ho lavorato come freelance per orafi, ma ideavo anche mie creazioni con materiali nuovi. L’idea dello sfruttamento delle risorse e delle persone per immettere nel mercato monili venduti a prezzi stratosferici mi dava e mi dà fastidio. Non mi potevo cullare. Dovevo agire per dare il mio contributo nel rispetto di Madre Natura», racconta.
«Tutto ciò che la natura regala con una forma particolare attira la mia attenzione. Sono materiali di recupero che poi trasformo. Come ad esempio i filamenti delle padelle dei fichi d’India ormai usurate, le bacche, i noccioli della frutta, le pigne. Elementi biodegradabili che, lavorati con tecniche sperimentali e senza l’uso di resine o sostanze chimiche, diventano orecchini, collane, anelli, ciondoli. Pezzi unici da indossare».
Da qualche tempo, nel suo orto dietro il suo laboratorio ai piedi dell’Aspromonte, Pasqualina coltiva mais colorato australiano e altre sementi particolari. Il sughero, la canapa, i rami secchi e quelli levigati e poi trascinati dal mare creano poi l’habitat naturale per la sua creatività. Straordinarie le sue collezioni immerse nei concetti di estetica, etica, di agricoltura, di creatività, di artigianalità che spianano la strada a molti altri significati. Gli agrigioielli diventano infatti espressione anche di una Calabria raccontata positivamente; accessori che hanno ottenuto premi e riconoscimenti importanti da parte di associazioni serie nel mondo green.
Ci sono le “Bacche dipinte”, le cui raffigurazioni riportano alla Magna Grecia. I noccioli di giuggiole, di mandorle, di nocciole, di pesche punteggiano la collezione “Love fruits”. Pezzi esclusivi o in riproduzione limitata richiesti in Italia e all’estero. Collezioni che hanno impreziosito gli abiti delle fashion week e le sfilate di diversi e importanti stilisti.
Non smette di studiare, di portare avanti innovazione e ricerca a basso impatto ambientale. «Uso metalli non nobili, quali alluminio, ottone e rame. Prima anche bijoux dismessi che recuperavo, quindi vintage. Tra questi anche metalli e scarti di metallo che rifondevo. A volte adopero anche l’argento. Sono riuscita a collocarmi nella filiera dell’oro certificato, in cui ogni processo di produzione è sostenibile». Nel 2022 il suo marchio è stato il primo in Italia ad aver aderito al circuito di Oro FairTrade per l’acquisto di metalli sostenibili ed è tra i dieci italiani ad aver seguito questo percorso dell’oro sostenibile. «Quindi adesso inizierò a utilizzare l’oro con la linea FairTrade». Da qualche tempo Pasqualina, orafa che conosce più linguaggi, sta sperimentando delle tecniche per usare foglie e fiori all’interno delle sue creazioni. «Per lasciarli vivi ma stabili, come se fossero fermati nel tempo, senza però usare assolutamente resine chimiche che sono tra le più inquinanti».

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