Guardo da vicino i brandelli di stoffa e speranza spiaggiati sulla costa pitagorica e rifletto tra me e me: “Mia figlia indossa la stessa tutina”. Quella tutina rosa sommersa dalla sabbia, ma non abbastanza da affossarne il colore sgargiante. Tanto sgargiante da distinguersi rispetto all'inferno di legno che circonda un chilometro di spiaggia, a Steccato di Cutro. Qualcuno - prima o poi - cancellerà lo squarcio alla vita opera dell'uomo più che del furore delle onde. Ma lo squarcio dell'anima, quello no. Non basterà neanche una task-force ampia e motivata a spazzare via pezzi di legno e tristezza infinita.
Passo avanti, qualche metro più in là. Spunta una scarpetta di calcio della Nike. Ha resistito strenuamente, facendosi beffe delle onde: è praticamente intatta. Il simbolo di un altro sogno spezzato come si spezza una barca sotto i colpi delle mareggiate. Guardo la scarpetta e penso a un ipotetico proprietario. Mi immagino possa appartenere al piccolo Amir, 7 anni. Sette come il numero di Cristiano Ronaldo, suo idolo. Un giorno sogna di avvicinarsi a lui. Di essere osannato da tutti, di gonfiare così tante reti che nemmeno i pescatori nelle giornate più prolifiche. E magari sogna anche di potersi permettere una Lamborghini, un giorno. Quanto di più distante dalla vita - che poi tanto vita non è - da cui ha scelto di fuggire. Perché a volte l'alternativa alla partenza non esiste. Basterebbe solo essere un tantinello più empatici per capire che nessuno, con un po' di sale in zucca, metterebbe un figlio o una figlia su una barchetta se non lo ritenesse l'unico modo di fuggire da morte certa. Da una vita che vita non è.
A mezz'ora di auto da Steccato di Cutro si sente, distinto, il respiro della morte. Il PalaMilone è l'ultimo luogo terreno delle vittime di una tragedia. “Crotone come Lampedusa”, sussurra qualcuno all'esterno della struttura sportiva. L'unico barlume di speranza s'intravede proprio qui: un Paradiso di fiori, cartelli, lumini e messaggi che profumano - quelli sì - di speranza. Perché mentre c'è chi utilizza la strage di Steccato di Cutro come un acuminato dardo politico da conficcare nel fianco di questo o quell'altro “avversario”, molti altri preferiscono il silenzio, la preghiera, le lacrime.
Presto attenzione a ogni dettaglio e mi colpiscono i disegni dei bambini e delle bambine, così come i pupazzetti. Intravedo anche mister Moon, il koala-cartoon preferito di mia figlia, sempre lei. Piango, perché mi ritengo il papà più fortunato del mondo. Perché è una questione di fortuna, di latitudine.
Poi penso alla bimba che ha indossato per l'ultima volta la tutina rosa, ad Amir e ai suoi sogni a forma di pallone. Penso alle decine di vittime che hanno avuto solo una colpa: costruirsi un'esistenza migliore. Non ce l'hanno fatta, ma giudicare loro (e non i reali colpevoli) è come ucciderli una seconda volta. È come spezzarli in due.
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