I “traditori” e la legge “salica delle ‘ndrine”. Già quando vengono alla luce il destino dei congiunti maschi dei boss appare in qualche modo segnato. Così hanno raccontato due pentiti (discussi ma ritenuti credibili dalla magistratura) come Antonio Zagari e Pino Scriva. Il primo sosteneva che i neonati, figli d’importanti “uomini di rispetto” calabresi, vengono sottoposti a una singolare cerimonia che coincide con una sostanziale investitura mafiosa. Accanto alle manine del maschietto appena nato vengono posizionate da un lato una chiave e, dall’altro, un coltello. La prima simboleggia il mondo degli “infami” e degli “sbirri”, l’altro quello dell’Onorata società. Il maschietto – erede del casato mafioso – deve toccare subito la lama della “molletta” che viene messa in modo da essere naturalmente sfiorata. Comincerà così la sua “carriera” nel mondo del crimine organizzato. Scriva, invece, raccontava che i figli dei boss nascono già “battezzati” nella “famiglia” di ’ndrangheta di appartenenza. Al di là della loro intrinseca credibilità, i racconti dei due collaboratori di giustizia dimostrano tuttavia che importanza venga data dal punto di vista “ereditario” ai maschi nati in certe “famiglie”. Ai figli che hanno scelto di percorrere le strade dei padri, accettandone pure le conseguenze fanno tuttavia da controcanto, negli ultimi anni, i “rampolli” che, al contrario, patito il carcere, hanno deciso di “tradire” cosca e famiglia e di collaborare con i magistrati. Nel Cosentino interpreta questo ruolo Celestino Abbruzzese, condannato con sentenza definitiva a 13 anni e 4 mesi di reclusione per traffico di droga. L’uomo s’è messo infatti a “cantare” facendo finire nei guai padre, fratelli e cugini. È il primo tra i cosiddetti “rampolli” degli zingari a saltare il fosso. I pm della Dda di Catanzaro l’hanno chiamato già a deporre in alcuni processi. L’ultima uscita pubblica è stata nel dibattimento istruito per far luce sull’uccisione di Luca Bruni, avvenuta a Rende nel 2012. Identica a quella di Abbruzzese la scelta fatta da Emanuele Mancuso, figlio di Pantaleone detto “l’ingegnere” di Limbadi. Si tratta del primo collaboratore di giustizia ascrivibile direttamente alla potente famiglia dei Mancuso. Sulla stessa scia anche Giuseppe Giampà, di Lamezia Terme, figlio di Francesco inteso come “il professore”, Francesco Farao, figlio di Giuseppe, re del Cirotano, Dante Mannolo, figlio di Alfonso, “signore” di San Leonardo di Cutro.