Monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano, è il vicepresidente della Conferenza episcopale italiana con delega al Mezzogiorno d’Italia. Teologo raffinato, giornalista, oppositore coraggioso delle mafie, è da sempre accanto agli ultimi e ai diseredati. Visti i difficili tempi che sta attraversando la nostra regione, gli abbiamo posto alcune domande.
La Calabria è offesa dalla ndrangheta e vinta dall’emigrazione: qualcosa sta cambiando, la gente reagisce più che in passato?
La Calabria, lo dico sempre, è una terra meravigliosa ed ospitale. Mi accorgo sempre più però che esistono due “Calabrie”, due facce della stessa terra. Una è operosa, volenterosa, genuina e sana, pur vivendo di grosse difficoltà e contraddizioni. L’altra, ahimè, vive nell’ombra dei poteri deviati della massoneria e della ndrangheta. L’emigrazione che prima era una piaga, oggi ha assunto i connotati della normalità in Calabria e questo lo dimostra la mole di giovani e giovani adulti che, ogni anno, preparano i bagagli e partono per diverse destinazioni. Una delle frasi che sento quando incontro i giovani e che mi fa più male è: “Se vuoi lavorare devi andartene”. Mi rattrista molto constatare il sedimento di rassegnazione che si è impiantato nei giovani calabresi. Ma come dargli torto? Questa terra che pure è bellissima non è in grado di garantire loro un futuro dignitoso… e la responsabilità di chi è? Di tutti e ciascuno direi io.
Abbiamo ingrassato il mito urbano dell’emigrare al nord per vivere meglio quando, per molti dei nostri giovani, andare via è una vera e propria tragedia. Stiamo assistendo ad uno spopolamento programmato che ha risvolti etici e sociali ancor prima che economici. Molti dei nostri giovani sono costretti ad andarsene perché mancano le opportunità di crescita lavorativa e professionale. Il covid ci ha dimostrato, ad esempio, che una grande crisi può essere anche una grande opportunità. Il lavoro da remoto che ha salvato il tessuto economico italiano durante la pandemia, ha generato un vero e proprio controesodo e ci ha fatto capire che i nostri giovani emigranti, sono disposti a tornare ma chiedono al Sud un adeguamento dell’offerta, delle necessità e dei servizi. L’annosa questione della ndrangheta merita invece una diversa attenzione perché è una sfida sempre più complessa che richiede un approccio olistico. Istituzioni, società civile, forze dell’ordine, organizzazioni e cittadini devono accordarsi nel mettere insieme strategie che possano contribuire a combattere questo macrofenomeno.
Il mio appello è sempre rivolto alla “politica della vigilanza” che deve indebolire il sistema di infiltrazione delle organizzazioni criminali nel sistema politico e nelle istituzioni. Questo per garantire trasparenza ed integrità. La gente onesta di Calabria è stanca di soprusi ed angherie ma serve uno sforzo in più per promuovere sviluppo socio-economico nelle aree più vulnerabili e a rischio. Questo sviluppo lo determina il lavoro e dei sussidi mirati e personalizzati. La disoccupazione e la povertà sono un incentivo all’affiliazione ed allo sviluppo di strategie delinquenziali, malavitose.
La chiesa in Calabria sta facendo tutto quello che può, oppure c’è ancora subalternità rispetto alla politica e tolleranza verso i mafiosi?
La Chiesa in Calabria è a tolleranza zero verso i mafiosi. Ce lo ha raccomandato Papa Francesco ormai quasi 9 anni fa, invitandoci ad accendere la speranza soprattutto nei più giovani: speranza di un futuro dignitoso, ma anche di una terra liberata dal fardello della corruzione e della malavita. Con la politica è sempre aperto un tavolo di confronto libero e democratico e non mancheranno mai, però, gli scontri ideologici anche forti quando si perde la bussola dell’onestà. Sulla scia del suo Maestro, Gesù Cristo, alla Chiesa sta a cuore la gente, la fragilità, i poveri e gli ultimi. Quando la politica prende a cuore “altre vie”, siamo chiamati ad intervenire per ricordare che la politica è “la più alta forma di carità”, è “la mistica arte”.
Che appello lancia ai calabresi?
Ai calabresi vorrei rivolgere l’invito sempre attuale alla resilienza: perseverare, anche in mezzo a condizioni difficili, in uno stile di vita onesto attraverso ogni aspetto della vita quotidiana. Un impegno costanze capace di superare l’individualismo e di promuovere un clima di fiducia e trasparenza agendo sempre per la tutela del bene comune. Valorizzate l’istruzione e l’educazione che sono i pilastri fondamentali a garantire il progresso e l’evoluzione della nostra società e, per questo, valorizziamo i nostri giovani ed aiutiamoli a diventare cittadini consapevoli ed attenti costruttori di futuro.
Cosa manca a questa regione per svoltare?
La Calabria è una terra di straordinaria bellezza e ricchezza culturale: occorre prenderne sempre più consapevolezza per condividerla all’interno del panorama internazionale. Uniamo le forze, lavoriamo insieme e rifiutiamo di essere complici di un sistema di sopraffazione e violenza. Siamo chiamati a costruire un futuro di speranza e progresso, attraverso la realizzazione di un miracolo che solo i calabresi possono fare: restituire a questa terra la dignità e la prosperità che merita. La fede ci dona tutti gli strumenti necessari ma tocca a noi il coraggio di camminare insieme affinché possiamo sconfiggere la Ndrangheta e costruire un futuro migliore per tutti noi. È l’ora della rivoluzione mite e mai violenta! Siamo chiamati ad essere il popolo delle Beatitudini, come ci suggerisce Gesù.
E ai suoi colleghi vescovi, invece, cosa si sente di dire?
Come ci ricorda spesso papa Francesco: il Vescovo è un pastore con l’odore delle pecore. Essere Vescovi per questo popolo calabrese vuol dire non fuggire di fronte ai lupi che tolgono libertà e dignità, futuro e speranza. Per non fuggire occorre tanto spirito comunitario tra di noi, con i nostri preti e con le persone: creare legami profondi. Ma soprattutto coltivare il senso della profezia in ogni scelta e atteggiamento: mi colpiscono sempre le parole di un grande prete campano don Peppe Diana, ucciso dalla camorra, “Per amore del mio popolo non tacerò”. La profezia per noi Vescovi è la chiamata pressante di Dio oggi in questa terra martoriata.
Con la cancellazione del reddito di cittadinanza è riesplosa la povertà diffusa: cosa registra nella sua diocesi?
Quello che mi preoccupa, della cancellazione del reddito di cittadinanza, non è solo il rischio concreto dell’esplosione di un vero e proprio disastro sociale ma, l’effetto che avrà sulla povertà. Nella mia diocesi, di Cassano allo Ionio, il rischio di marginalizzazione ulteriore dei poveri è altissimo e lo era già prima della pandemia da Covid-19 che ha rappresentato il megafono di fragilità sommerse ma non sconosciute. Quello che sta accadendo è che, nell’arena di scontri ideologici e duelli politici, stiamo lasciando indietro i più fragili ampliando il disagio già strutturato e strutturale. Quello che bisognerebbe fare e che nella mia diocesi come Vescovo (ed insieme alla Caritas) mi impegno a fare, è assumere il punto di vista dei poveri. È partire da chi non ce la fa! Quando mi riferisco alle povertà sommerse, parlo di tutte quelle persone che non sono raggiunte da alcun tipo di sussidio o che vivono situazioni di multivulnerabilità.
Chi sono i poveri di oggi?
I poveri non sono una categoria assoluta, uno stigma, una parola detta così. Sono persone e, spesso, sono molto più vicine a noi di quanto pensiamo. Oggi i rapporti Caritas, ma lo esperisco quotidianamente nel mio territorio e non solo, ci dicono una cosa importantissima: i sussidi, per quanto siano stati un supporto indispensabile per molte famiglie, non sono serviti per uscire dallo stato di marginalità. È il lavoro vero, legale, pulito, che dà la possibilità di uscire concretamente dall’impoverimento, dando dignità alla persona. Si sono invece imposti gli effetti distorsivi del mercato del lavoro senza la predisposizione di percorsi (ancorché pensati in principio) che potessero accompagnare gli utenti beneficiari, nella conquista di una dignità ed indipendenza lavorativa. Il problema, specialmente al Sud, è rappresentato da scarsi investimenti nelle politiche sociali, dalla mancanza o insufficienza di politiche attive del lavoro e dall’inesistenza di quella rete comunitaria che dovrebbe, in primis, combattere l’esclusione finanziaria e sociale. Bisogna puntare a nuove sfide sociali e a migliorare il welfare, incentivando l’occupazione e finanziando programmi di protezionesociale a partire dall’infanzia. Un dato che mi preoccupa e non poco è che i nuovi poveri sono i giovani, una fetta consistente di popolazione senza reddito da lavoro, spesso con figli. La povertà va studiata sotto un multiaspetto che comprenda anche lo studio delle dinamiche intergenerazionali.
E cosa pensa, come vicepresidente della Cei, della situazione nel nostro Paese?
La situazione italiana è a rischio collasso. Ricordo che ci sono cinque milioni e mezzo di poveri. Stiamo cercando di venir fuori da una crisi pandemica e da altre crisi innescate da vicissitudini internazionali, come la guerra in Ucraina. È chiaro ed evidente che si assista all’emersione di povertà diverse. Penso al fenomeno del working poverty e cioè alla povertà lavorativa che ormai tocca oltre il 10% degli occupati. È impensabile lavorare e non riuscire a raggiungere un reddito sufficiente a garantirsi la possibilità di soddisfare necessità di base. In questo caso misure “in work benefit” e cioè dei sussidi per i lavoratori e il salario minimo, possono favorire l’occupazione e diminuire forme deviate come il lavoro nero.
Nella lotta al lavoro nero c’è bisogno della responsabilità di tutti: del lavoratore, del datore di lavoro e delle Istituzioni. Certo il Reddito di Cittadinanza doveva essere ripensato ma non cancellato. Bisognava mettere in pratica dei programmi di formazione e riqualificazione professionale seri che interessino anche i disoccupati a lungo termine, aumentare il salario minimo e garantire incentivi ai datori di lavoro pronti ad assumere persone. E poi, pensiamo soprattutto a garantire l’assistenza sanitaria universale. Non è accettabile che la sanità pubblica non sia in grado di soddisfare le esigenze dei cittadini che sono poi costretti a rivolgersi a quella privata con tutte le conseguenze che ne derivano.
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