
Il cortocircuito non è solo interno alla politica ma riguarda, in senso molto più ampio, la distanza tra i territori e chi è chiamato a rappresentarli. Ciò che è successo in Calabria negli ultimi giorni è un paradigma di quanto accade da anni in una regione che, dopo un ventennio di proliferazione di impianti eolici, resta dipendente dai combustibili fossili. Un paradosso, così come è singolare che lo slogan della Calabria da trasformare in «hub energetico» sia usato da big di centrosinistra e di centrodestra e finisca per spaccare anche l’eterogeneo fronte ambientalista. Pochi giorni fa la partecipazione (da remoto) della segretaria del Pd Elly Schlein a un incontro del suo partito a Rende, così come un forum organizzato da Legambiente all’Unical, ne hanno fornito una plastica dimostrazione. In entrambi i casi è stato riproposto il refrain del Sud da trasformare in un grande polo di produzione di energia rinnovabile – concetto su cui anche l’ultimo rapporto Svimez ha sollevato dei dubbi – e, puntualmente, queste uscite hanno suscitato l’indignazione di chi sui territori ci vive e prova a contrastare quello che viene definito come «un grande affare privato garantito dai soldi pubblici». Gli attivisti del movimento “Controvento Calabria”, per esempio, negano di essere vittime della sindrome Nimby e sostengono, invece, di lottare nell’interesse generale per la messa in sicurezza del territorio. «Impugnando striscioni sui quali c’era scritto “Rinnovabili sì ma non così” abbiamo rivendicato – spiegano – il diritto a partecipare alle decisioni su faccende che ci riguardano direttamente, abbiamo rifiutato la sottomissione illimitata alle logiche di mercato e agli interessi di pochi grandi gruppi economico finanziari chiedendo l'applicazione della Costituzione Repubblicana».

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