Una storia la cui idea è nata dall’aver appreso che il governo svizzero cercava «agenti dei servizi segreti con una particolare capacità: saper parlare bene il dialetto calabrese». Così dice Daniele Pronestì, calabrese di Polistena ma vissuto tra Copenaghen e New York, per il suo primo bel romanzo, «Le ragioni dell’istinto» (Bompiani) con protagonista Giuseppe Bellingeri di Morgese (una sorta di Vigàta che allude a Polistena e in onore di San Giorgio Morgeto), ma anche inserito nelle grandi dinamiche del mondo, essendo un agente segreto, che «ha ancora molto da dire, quindi spero tornerà presto a parlare», ci anticipa Pronestì. La vicenda, che inizia da un femminicidio, dietro al quale stanno criminalità organizzata, malaffare, ma anche omissioni e atteggiamenti gattopardeschi della provincia, è raccontata con una lingua tra calabrese e italiano ben inseriti nel parlato e nei pensieri dei personaggi. «Una scelta – dice Pronestì, che lavora per un importante istituto finanziario italiano – per restituire pensiero, postura e vizi agli attori del libro, immersi in una fauna sociale in cui immigrati francofoni, cinesi delle risaie, nuovi settentrionali e vecchi calabresi si ritrovano a vivere e collidere. Sapevo che il dialetto sarebbe stato un dispositivo narrativo pericoloso, perciò l’ho dosato con cura, per non tradirne la forza e non ridurlo al folklorico. Il libro parla di noi umani e dunque il dialetto lavora come una lente, non come un ornamento, forse per questo Peppe Bellingeri e gli altri riescono a farsi apprezzare anche fuori dai confini della regione». Una scelta coraggiosa fatta da tanti, da Camilleri in poi. E c’è stata, in fondo, la volontà di sdoganarlo questo, tra i dialetti calabresi, così forte ed espressivo? «Non ho mai avvertito alcuna consapevole affinità con Camilleri da un punto di vista stilistico anche se molti, leggendo il libro, mi hanno detto di averne sentito l’eco. Più che sdoganare la lingua mi interessava mettere in crisi l’immagine data a chi quella lingua la parla. E il dialetto mi è sembrato un punto di partenza necessario per raccontare ciò che mi pare di sapere sul mio territorio, ovvero che l’archetipo del calabrese non è declinabile nel semplice binomio ‘nduja-‘ndrangheta». Una particolarità del romanzo è il bestiario, spiegato in calce al volume, per rappresentare i tipi umani. Suggestioni dai classici antichi o da altre letterature? «La tradizione letteraria a cui attingo parte da Esopo e arriva fino alla recente letteratura giapponese, paese che mi appassiona particolarmente. Tuttavia, non mi soddisfano le associazioni parziali che la narrativa europea dà al tema animale, tipo volpe uguale furbizia. La civiltà e la letteratura associano all’animale un ruolo lapidario ed elementare riservando solo a noi umani il pregio della complessità. Eppure, noi umani siamo animali. Ecco perché nel libro si trovano personaggi umani e animali alla pari e non a caso il libro inizia con un femminicidio, un atto che la società cerca spesso di ricondurre a un movente o a un raptus, alla ragione o alla sua assenza. Uccidere è un atto bestiale, privo dell’umanità di cui ci vantiamo». Chi è Peppe Bellingeri, un lupo nel suo bestiario. «Bellingeri è un fragile maschio contemporaneo, un lupo perché sente la mancanza di un branco pur non rinnegando un certo piacere per la solitudine. Non è un seduttore e infatti con i personaggi femminili si dimostrerà un completo idiota. Rappresenta lo spaesamento della mia generazione ed infatti si muove spesso tra ironia e tristezza, animato da una morale personale e forse rappresentativa dei giovani meridionali: colti certo, ma inevitabilmente legati ad un mondo in cui la modernità può essere una malattia. Il fatto che sia un agente segreto, lontano dagli 007 che conosciamo, serve anche a raccontare una fetta d’Italia, fatta di onesti che vivono ancora nell’ombra». Lei affronta temi forti come la situazione degli immigrati (con tutta la stratificazione di un certo sistema), la criminalità organizzata, il malaffare, i segreti della provincia. «Non amo i libri in cui le distinzioni morali sono nette. Mi piaceva l’idea di scrivere per slabbrature, attraverso lacerazioni, slabbrando appunto i confini di specie, morale, narrazione e lingua. Nessun personaggio può definirsi totalmente innocente o colpevole, come nella vita. Miseria e bellezza, istinto e ragione coesistono anche in ambienti altolocati e professionalizzati. L’istinto predatorio di uomini e donne esiste tanto tra i campi di bergamotto in Calabria quanto tra i grattacieli di Milano. Nel libro questo viene espresso dalla famiglia Pitace, una dinastia di rapaci e proprietari terrieri capaci di arricchirsi attraverso la sopraffazione dei braccianti e le connivenze dei sindacati. Siamo tutti un po’ guasti, così anche i personaggi che hanno un’esistenza, forse un’umanità, che va curata e capita». Nei ringraziamenti scrive: «il resto della storia è attribuibile al rapporto tra me e la mia terra e a una mia personale visione delle cose». «Attraverso la mia esperienza all’estero ho capito che a qualsiasi migrante spetta solo il purgatorio. L’umanità del libro penso stia nel conflitto tra abbandonare il proprio paese e tornarvi, come fa Bellingeri nel suo paese, dove pochi legami disvelano affezioni ancora vive mentre persistono sacche di miseria e immaturità civile proprio in posti ricchi e inattesi. La mia personale visione delle cose è questa: ciò che ci rende umani è riparare a quanto di animalesco ogni giorno compiamo. Sono per l’appunto le ragioni dei nostri istinti».