
L’arte del fotografo Mario Giacomelli (Senigallia, 1925 – 2000) è stata una sfida continua, nonostante i riconoscimenti internazionali e un successo conclamato, e continua a esserlo anche in questo 2025, in cui ricorre il centenario dalla nascita. È la conseguenza della singolarità delle sue fotografie, ancora oggi di straordinaria modernità (nonostante i mezzi “antichi” utilizzati) e capaci di suscitare discussioni sempre nuove, confermata dalle due mostre (complementari) in corso a Milano (Palazzo Reale, fino al 7 settembre) e Roma (Palazzo delle Esposizioni, fino al 3 agosto).
A Milano la mostra «Mario Giacomelli. Il fotografo e il poeta» è promossa da Comune di Milano – Cultura ed è prodotta da Palazzo Reale e Archivio Mario Giacomelli, in collaborazione con Rjma progetti culturali e Silvana Editoriale. Il titolo dell’esposizione di Roma è «Il fotografo e l’artista». Ambedue sono curate da Bartolomeo Pietromarchi e Katiuscia Biondi Giacomelli. Se nella Capitale si ricostruisce il rapporto tra il fotografo (che è stato anche pittore e poeta, oltre che tipografo professionale) e le arti visive sue contemporanee, a Milano il percorso è incentrato sul rapporto con la poesia, includendo, tra l’altro, le celebri serie ispirate a Leopardi, Spoon River, Cardarelli, Montale, Permunian (soprattutto) e al calabrese Franco Costabile.
Perché le immagini di Giacomelli continuano a essere una sfida ancora oggi? Il suo stile era e rimane personalissimo, vola alto su tutte le questioni metodologiche e concettuali della fotografia e le supera. Lui non è né realistico né documentario, semmai cerca tutto quello che c’è dietro la realtà visibile. Dà corpo a quella sensazione che talvolta capita a tutti di avere guardando un paesaggio, una casa, un gruppo di persone, quando sembra di cogliere ciò che non è esplicitamente mostrato oppure detto. Cosa in apparenza impossibile a farsi con la fotografia, eppure lui ci riesce, dà corpo ai pensieri, alle impressioni, al non compiutamente percepito. Adotta inquadrature monche, sghembe, sceglie oggetti senza renderli immediatamente percepibili, in camera oscura taglia la pellicola, talvolta la sovrappone, rende irregolari i tempi dell’impressione su carta, adopera mascherature, crea sempre qualcosa che non è quello che ci si aspetta da una fotografia canonica, cioè perfettamente definita e dall’inquadratura che bilancia ogni cosa, soggetti od oggetti che siano.
Il suo è il nostro mondo ma è anche un altro mondo (e un altro modo), dove le emozioni appaiono miracolosamente su carta. Le sue impressioni diventano a poco a poco anche le nostre, se appena entriamo in sintonia col suo pensiero, che potrebbe sembrare laterale e invece punta dritto al centro di tutto. Ecco perché la sua fotografia da artista irregolare si sposa perfettamente con la poesia: cercata, studiata, vissuta (anche in prima persona, come pure la pittura, spesso realizzata con stoffe, non a caso informale, frutto dell’amicizia con Alberto Burri), esplorata nel suo centro più riposto fino a farla diventare “carne” attraverso le immagini che mai l’illustrano ma sempre le camminano accanto alternando passi paralleli ad altri perpendicolari, cioè ora accompagnando ora incontrando (ma anche scontrando), con l’uso di immagini che quei versi riflettono, senza che mai ci sia un’effettiva e facile identificazione, men che meno sovrapposizioni.
Forse le fotografie diventano lame affilate che discutono con quelle altre lame affilate che sono i versi, fino a contaminarsi l’una (l’immagine) con quelli (i versi) in una sorta di reciproco contributo, che mette insieme realtà e metafisica in una combinazione quasi magica. Anche la sua serie più celebre (primi anni Sessanta), conosciuta come quella dei «Pretini», ha come titolo «Io non ho mani che mi accarezzino il volto», tratto da un verso di padre Davide Maria Turoldo (prete e poeta straordinario) e preparata dopo tre anni di frequentazione del seminario di Senigallia (le foto costarono il posto al rettore) per capire «l’aria che circola», per andare sempre oltre. «Non mi interessa tanto – diceva – documentare quello che accade, quanto passare dentro quello che accade».
Ecco che quei seminaristi intenti a giocare sulla neve, che a un primo sguardo possono sembrare portatori di gesti semplici, a uno sguardo appena più attento diventano espressione di tutto un mondo, quello privo di carezze del titolo, lontani come sono da casa, e attraverso il taglio delle pellicole, l’esposizione volutamente sbagliata e altri accorgimenti, si dilatano verso emozioni che non sono più le loro, ma diventano le nostre (ognuno con le proprie), pronte a muoversi verso un oltre, cui forse non siamo preparati andando a visitare una mostra che crediamo di fotografie.
Giacomelli, esposto al Moma di New York e in una serie incredibile di musei in tutto il mondo, è rimasto sempre fedele alla sua ricerca, mutando però i soggetti (dai campi arati visti dall’alto agli anziani ricoverati in un ospizio) e obbedendo a sensazioni sempre diverse e comunque legate all’inesprimibile. Gli accadde anche in Calabria, negli anni Ottanta, quando andò a fotografare l’Aspromonte, ispirato dalle poesie «Il canto dei nuovi emigranti» di Franco Costabile. Visitò Cutro, Pentedattilo (di cui sottolineò l’essere un posto abbandonato e vivo nello stesso tempo), Caraffa, Tiriolo e Copanello. Riuscì a fotografare la mancanza, l’assenza, quella che, piena di rabbia c’era nei versi di Costabile. «Parole come pezzi di reale – ha scritto Katiuscia Biondi Giacomelli – , così come lo sono le fotografie di Giacomelli: soggetti decontestualizzati, frantumati, deformati, ricostruiti in un ordine nuovo, il suo».
Ma non è solo suo: dentro quei volti e quei luoghi c’è l’invito, come sempre, a fare un nostro ordine, passando attraverso la porta del suo “realismo magico” (così è stato definito), occasione forse per scoprire meglio noi stessi.
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