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Il più grande, Lorenzo Calogero. Nel nome del poeta calabrese una Festa nel suo paese e una nuova raccolta

Incompreso, tormentato, misconosciuto. Ma la sua poesia resta, fulgida, e indica una strada difficile, esaltante. È ora di raccoglierne l’eredità

Ogni volta che muore un poeta, muore un sogno. Resta la sua poesia però, a soccorrerci nella resistenza quotidiana, un capitale del bello e del buono di cui è prova il fatto che essa stessa è un formidabile moltiplicatore di idee. Lo dimostra appieno «Un’orchidea ora splende nella mano. Poesie scelte 1932-1960» di Lorenzo Calogero (edizioni Lyriks, con la prefazione di Aldo Nove, traduzione inglese di John Taylor, e, in copertina, una “cancellatura” originale dell’artista Emilio Isgrò dedicata al poeta che crea un «dialogo visivo» coi versi). Già nel 2020 il regista e scenografo calabrese Nino Cannatà aveva reso al fine intellettuale e grande poeta calabrese Lorenzo Calogero, a 110 anni dalla sua nascita, (Melicuccà, 28 maggio 1910-25 marzo 1961), con la pubblicazione, sempre per le edizioni Lyriks, di una silloge che contiene, assieme ai versi più significativi del corpus poetico di Calogero, altri contributi, tra i quali gli interventi critici di John Taylor, poeta e traduttore di Calogero in lingua inglese negli Usa. Cannatà, curatore del “Progetto Calogero”, in collaborazione col Gruppo Sperimentale Villa Nuccia, aveva celebrato il grande poeta nel 2010/2011 (per il centenario dalla nascita e i 50 anni dalla morte) con «Città fantastica, il lungo canto di Lorenzo Calogero», opera video-teatrale, con un adattamento drammaturgico dei testi del poeta, la voce recitante di Roberto Herlitzka, la voce-off di Carlo Emilio Lerici e la partecipazione di Lydia Mancinelli.
Ma bisogna partire dal comune reggino di Melicuccà, con la sua storia antica che risale alla grecità bizantina, che da oggi a domenica celebrerà Calogero con una grande «Festa della poesia» – autentica festa dell’arte e della bellezza – per trovare la sorgente aurorale della sua poesia. Forse, proprio da lì Calogero poté mirare, come scriveva, «al di là dei monti, dei mari, un infinito sublime, un regno che non finisce mai»: la «città fantastica» nella quale si alimenta la poesia che trova in se stessa la propria materia, nella vicenda esistenziale di Calogero, figlio amatissimo di una famiglia di intellettuali e terzo di sei fratelli, che nonostante la laurea in medicina (conseguita a Napoli nel 1937) voleva dare un senso al vivere portando alla luce i suoi canti e lasciandoli andare nel mondo. Ma proprio nello spazio opaco della realtà Calogero si scontrava con l’impossibilità di far parte dei «poeti laureati»: benché seguisse la comunità letteraria che si raccoglieva intorno alla rivista letteraria «Il Frontespizio» di Pietro Bargellini e Carlo Betocchi, ai quali inviò le prime poesie con la speranza che venissero pubblicate, andò incontro alla disattenzione se non ai rifiuti, così pubblicò nel 1936, a sue spese, con Centauro Editore, la sua prima raccolta, «Poco suono».
Consapevole della sua marginalità, non soltanto geografica, ma soprattutto letteraria, rispetto alle poetiche canoniche di quegli anni, sperimentava l’ «inamovibile pena» del vivere anche con una salute precaria cui seguì un lungo periodo di inquietudini e di distanza dalla scrittura, colmata da letture profonde. Ma il diario lirico interiore del poeta non cessava. Scriveva: «Mandai lettere d’amore/ai cieli, ai venti, ai mari,/a tutte le dilagate/forme dell’universo,/essi mi risposero/in una rugiadosa/lentezza d’amore/per cui riposai/su le arse cime frastagliate loro/come su una selva di vento», perciò dal 1946 al 1952 ricominciò a cantare l’enigma del mondo con versi radicati nella riflessione sul senso stesso della poesia nell’esperienza umana.
Una danza immaginosa, tra luce e tenebre, che venne “scoperta” da Leonardo Sinisgalli al quale Calogero, dopo deludenti tentativi con Einaudi, consegnò negli anni Cinquanta due sillogi, «Ma Questo» e «Parole del Tempo», per una prefazione, cosa che Sinisgalli avrebbe fatto, per il volume «Come in dittici»: versi lussureggianti che scorrono da limpide sorgive ma con improvvisi, audaci accostamenti/deragliamenti ed eleganti architetture fonico-lessicali. Sinisgalli si disse «felice di aver percorso e scoperto per primo le meraviglie di questo nuovo continente che viene ad allargare il dominio della poesia» e al tempo stesso speranzoso che i libri di Calogero restituissero «ai nostri critici più autorevoli la fiducia nei poeti».
Un auspicio che sembrò realizzarsi quando nel 1957 Calogero vinse il premio letterario “Villa San Giovanni”, conferitogli dalla giuria presieduta da Falqui, e composta da Selvaggi, Angioletti, Doria, Solmi, alla presenza dello stesso Sinisgalli (intanto tra il 1956 e il 1958 aveva scritto le novantanove poesie della raccolta «Sogno più non ricordo»), ma al prestigio del premio ricevuto non seguì alcuna proposta editoriale. Delusioni che accentuavano lo stato di nevrosi di Lorenzo. Eppure, anche nel dolore, la sua parola-visione s’illuminava davanti a un nido, alle nuvole, a un plenilunio, restando nel qui del mondo ma abbandonandosi, trepida, alla notte, all’ombra: i versi che nei suoi ultimi scritti definiva «povere cose miracolose» pensava potessero essere di tutti, come è giusto che sia la Poesia: «Se qualcosa di esso, sparso/ frammento,/farà ritorno/ sia come una bianca ala,/un fiore di giglio/nato nel sogno/su un nastro azzurro». Così nascono i «35 Quaderni di Villa Nuccia», come li avrebbe intitolati, nel 1962, dopo la morte del poeta, Roberto Lerici, editore dei due volumi di «Opere Poetiche», con introduzione di Giuseppe Tedeschi.

Ungaretti disse di Calogero: «Con la sua poesia ci ha diminuiti tutti», Carmelo Bene lo definì «il più grande poeta lirico del Novecento italiano», fu apprezzato da Montale, Luzi, Amelia Rosselli, Caproni, Repaci, Sereni, Vigorelli, Piromalli, eppure, nonostante i convegni e gli studi che gli sono stati dedicati, bisogna ancora scavare nel ricchissimo giacimento dei suoi scritti. «Aveva una cultura enciclopedica – ricorda la nipote Luisa Calogero, figlia di Francesco, uno dei fratelli di Lorenzo, e che insieme al fratello Mario vive a Messina – e benché fossi ancora piccola lo ricordo appoggiato allo stipite della porta, con il viso rivolto verso l’alto, pensoso. Forse elaborava quei versi e riflessioni che scriveva nei quaderni neri di una volta, a righe e quadretti sottili».
Quegli oltre ottocento quaderni manoscritti oggi custoditi all’Università della Calabria, grazie al lavoro di recupero di Vito Teti, che ha aperto una nuova stagione degli studi calogeriani con un convegno, «Lorenzo Calogero. 1910-2010. L’‘ombra assidua’ della poesia» organizzato nel 2014 con l’Università della Calabria e la pubblicazione dell’opera inedita «Avaro nel tuo pensiero» (Donzelli, a cura di M. Sechi e C. Verbaro) e «Parole del tempo» (Donzelli, 2011, a cura di M. Sechi, introduzione di V. Teti). Un «tesoro di poesia», ricorda Teti, «che meriterebbe molto di più perché si mantenga viva una delle voci poetiche più alte del Novecento».

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