«Ce ne andiamo./ Ce ne andiamo via./ Dal torrente Aron/ dalla pianura di Simeri./ Ce ne andiamo con dieci centimetri /di terra secca sotto le scarpe/ con mani con rabbia con niente…». Comincia così «Il canto dei nuovi Emigranti» (1964) di Franco Costabile, il nostro grande poeta, di cui proprio quest’anno ricorre il centenario della nascita. Un canto, che in realtà è un planctus, una nenia di dolore, un pianto pietoso, una denuncia amara e dolente, un elenco disperato dei nomi paesi da cui si fugge e quello indignato dei nomi dei politici responsabili dell’addio di quanti vanno ad appendere le giacche «nelle baracche nei pollai d’Europa», con la vita legata a una catena di montaggio da cui milioni «di macchine escono targate Magna Grecia». Un canto agro, potente e melanconico, che giungeva alla fine di un lungo processo di erosione, cominciato alla fine dell’Ottocento e che aveva già raccolto Alvaro in racconti famosi come «Il ritratto di Melusina», con il paese che sembra un perpetuo Venerdì Santo, e nel 1958, dopo la morte, in «Un treno nel Sud», dove osserva che un aspetto del paesaggio e della vita della Calabria è «quello dei paesi abbandonati e disabitati sui monti e sui colli, le finestre vuote, il campanile vuoto ancora in piedi, il castello diroccato». Dai paesi rovinati dell’Aspromonte e delle Serre, Alcide De Gasperi – la memoria ormai è storia e mito – invitava gli sfollati a studiare le lingue e a correre nelle fabbriche del Nord Italia e del Centro Europa. Si fuggiva dai paesi della miseria, ma a finire era una civiltà millenaria. Con il boom economico, il mito della città, le rappresentazioni lugubri delle montagne e delle aree interne, la modernizzazione senza progresso, il paese scompariva anche dalle narrazioni egemoni e a raccontarlo erano pochi scrittori, qualche demologo, nuovi antropologi e meridionalisti. Nell’Italia della «Milano da bere» o nella Calabria della retorica modernista, delle sagre, dei «porti di Ulisse», ormai non erano più le persone a fuggire, ma se ne andavano interi paesi. Nella poesia «Paese di notte» (nella raccolta «La forza degli occhi») Alfonso Gatto scrive: «Abbiamo tutti fretta di morire / per tornare al paese», ma ormai anche questo ritorno diventa sempre meno possibile, perché in molti paesi non ci sono più familiari ad accogliere quanti sono andati, spesso non ci sono più strade, a volte i cimiteri sono inagibili. Tutto il mondo è alla rovescia. Il «paese presepe» è diventato «non più luogo» senza capanne e senza pastori. Non esiste più l’ «incantato» del presepe che guardava la stella e si stupiva dinnanzi al miracolo e alle meraviglie del cielo. Il vuoto demografico (rinvio all’ indagine di Domenico Cersosimo e Sabina Licursi, «Lento pede», Donzelli 2023) è “vuoto”, rarefatto, in bilico tra disperazione e desiderio di cambiare lo stato delle cose. Diceva ancora Costabile: «Ecco, io e te, Meridione, dobbiamo parlarci una volta, ragionare davvero con calma, da soli, senza raccontarci fantasie/ sulle nostre contrade./ Noi dobbiamo deciderci/ con questo cuore troppo cantastorie». È ora di decidere che tante retoriche identitarie non hanno aumentato il Pil, l’occupazione, la popolazione. È ora di affermare che le iniziative sui paesi non possono essere lasciate in mano a chi non li conosce e li considera perduti. È ora di dirci che l’invenzione del «borgo» patinato, puro e incontaminato, serve soltanto a qualche speculatore che sa dove vanno i grandi finanziamenti, o a qualche compiaciuto esteta delle rovine e romantico narciso, per cuila “restanza” è uno slogan e un gadget, e non come noi vorremmo noi una scelta di vita, di ribellione, di mutamento radicale, di mobilità attiva e creativa. Questi paesi che abbiamo abitato e ci abitano dentro, e che amiamo, non possono diventare, da Paradiso Incompiuto, un Inferno Perfetto. La favola che che tutto è accaduto, che non si può fare più nulla, mentre, invece, si potrebbe avviare una rigenerazione (cito ancora Cersosimo) se i paesi venissero dotati di strade, servizi, scuole, musei, centri sociali, se si creasse occupazione con il sostegno vero alle famiglie, ai fragili, agli ultimi, a chi scommette sull’innovazione nella produzione agricola, artigianale, turistica, se riuscissimo a dare concretezza alle parole fiducia, pathos, solidarietà, accoglienza. Lo spopolamento, come scrive Fulvio Librandi, è anche un dispositivo culturale e mentale per il «non ancora». Chi, come dice Latour, pensa che non sappiamo «dove siamo» e che siamo in cammino, viandanti pronti a guardare – incantati – le stelle, i nuovi paesaggi, gli altri. Chi si sente fuori da urbanocentrismo o antropocentrismo può accendere, per sé e per gli altri, il dispositivo della speranza. Può pensare che i luoghi rarefatti, vuoti e abbandonati somiglino al Terzo Paesaggio, di cui parlano urbanisti, artisti, filosofi (penso a Caffo) dove potrebbe vivere l’umanità di domani. Questi luoghi vuoti, tristi, amati e odiati, potrebbero diventare la salvezza nell’epoca dei grandi rivolgimenti climatici. Giovani, donne, professionisti, artisti che, in tutte le aree interne, restano, tornano, arrivano nei paesi, per fondare nuova vita o quanti sono costretti a partire non meritano – neanche quando siamo più disperati e apocalittici – rese, diserzioni, senza combattere dignitosamente, per affermare il diritto a restare e a partire, per avere beni materiali e immateriali, che, in fondo, sono elencati nella nostra Costituzione.