Parte dal Sud profondo e ctonio, il Sud delle isole remote, lungo la linea delle faglie, la linea di fuoco dei vulcani, assopiti o dormienti, l’ennesimo viaggio di Paolo Rumiz, viaggiatore e scrittore (senza che queste due attività si possano distinguere esattamente), nel bellissimo «Una voce dal Profondo», appena uscito per Feltrinelli. Un viaggio di precisione (dei percorsi, delle traiettorie, delle ricostruzioni) e di vaghezze (seguendo lo scarto, la suggestione, l’imprevisto), d’orientamento e di sperdimento. Un viaggio, come è suo uso e stile, nello spazio ma nel tempo, ritessendo ogni volta, delle terre attraversate, l’intera trama di visibile e invisibile. Convocando testimoni d’ogni genere: sentinelle del territorio, artisti di molte specie d’arte, scienziati poetici e maestri visionari (ci è molto caro, in Calabria, il professor Vito Teti, antropologo e teorico della “restanza”), ma anche passanti occasionali e fortuiti compagni di strada. Stavolta di quel suo “ascoltare le voci” – di qualunque cosa, animata e inanimata, presente o passata, descrivendo con esattezza i territori ma per comporne una geografia dell’anima – ha fatto la ragione profonda d’un viaggio che non poteva che cominciare da Sud. Dalle isole Eolie, e poi la Sicilia, e una lunga sosta in Calabria (dove oggi, a Reggio, parlerà del libro alle 17, a Palazzo Trapani Lombardo), terra misconosciuta, intimamente greca, per poi attraversare il magma di Napoli e giungere fino alle Alpi. Seguendo quelle voci d’un sottosuolo che nasconde prodigi e perigli, dove s’incrociano le faglie e le radici di queste terre che tremano, ribolliscono, franano. Naviga lo Stretto, Rumiz, e naviga con lo sguardo tutti gli orizzonti, percorre crinali e linee di faglia, sale su ogni cima e s’inabissa negli inferi, interroga la Storia e tiene d’occhio la cronaca, e con la parola – una parola infiammata e potente, che pure mai si sovrappone a ciò che racconta e mostra – ci restituisce ogni cosa, ma arricchita dalle risonanze d’ogni altro viaggio e incontro e libro. Qual è la “voce del profondo” che ha sentito qui, tra Sicilia e Calabria? «Direi che se la Sicilia è un luogo tragico per cui userei una tonalità minore, molto probabilmente un La, e se per Napoli, come ha detto Riccardo Muti, che si sente napoletano al mille per mille, la tonalità è il Sol Maggiore, alla Calabria io attribuirei un Do, molto profondo. Io ho dedicato alla Calabria molte pagine, perché è una terra trascurata dall'unità nazionale. E soprattutto ho sentito il bisogno di colmare questo vuoto, occupandomi di questa regione interminabile, della quale spesso ci si occupa soltanto per episodi di cronaca nera. Tornando al suono, io direi proprio l’eco tenebroso d’ una montagna molto frammentata, tormentata, inquietante, che sembra sempre in attesa di un tuono dal profondo, come appunto il Pollino, che ha una carica sismica spaventosa ma è in sonno da tantissimo. Il suono della Calabria mi ricorda quello di un treno, d’un convoglio che frena improvvisamente con tutti i vagoni che s’accartocciano quasi a forma di fisarmonica, appena in tempo per evitare lo Stretto. Forse questa cosa mi viene dai viaggi che ho fatto una ventina di anni fa sulle ferrovie calabro lucane su cui ho visto dei treni letteralmente avvitarsi su se stessi nel superamento delle vallate». Come racconterebbe la Calabria che ha sentito e visto a un greco? «Gli racconterei la grecità della Calabria e cioè che la Calabria è il punto di ingresso del cristianesimo primitivo di lingua greca che molto spesso arrivava dal Nilo. Alludo alla grande fuga dei monaci e degli eremiti che si portavano dietro le icone bandite dall'iconoclastia. La Calabria è punto d'arrivo d’una fortissima corrente spirituale che a me piace contrapporre alla vulgata sabauda che vorrebbe la Calabria terra esclusivamente fecondata dall'onda civilizzatrice del vecchio Piemonte. Penso che le due correnti siano entrambe importanti per l'unità nazionale. Poi a un greco direi anche che la Grecia è una terra antica, estrema nei due sensi, nel bene come nel male. È un tipo di sensazione che ho provato parecchi anni fa, la prima volta che mi sono trovato a scrivere degli articoli sui Balcani: la forte sensazione di un'energia positiva, ma che può tremendamente avvitarsi su se stessa». Quale nume invocherebbe, se fosse un navigante dello Stretto? «Per attraversare lo Stretto invocherei, più che un nume, un eroe. Quel luogo è denso di epicità, soprattutto per quanto sta scritto nell'Odissea. Quindi io lì ci vedo Ulisse, ci vedo Aiace, ma ci vedo anche la nostra grande progenitrice Europa, che nel mito antico conclude la sua traversata via mare, sulla schiena di Giove trasformato in toro, nell'isola di Creta, ma nel mio libro “Canto per Europa” finisce la sua storia subito dopo lo Stretto di Messina, dalle parti di Gioia Tauro e il luogo e la parola “Tauro” non li ho scelti a caso proprio per echeggiare il mito, per cui Europa in qualche modo aveva a che fare col toro. Direi che mi piace l'idea che ci sia una figura mitica femminile, perché da quello che ho letto sulla storia della Calabria, per secoli il peso di questa regione è gravato sulla schiena delle donne». Cosa pensa del Ponte sullo Stretto? «Ci toglierebbe la possibilità d’un ingresso in Sicilia o in Calabria carico di sacralità. Come dico nel libro, i greci chiamavano il mare con la parola “pòntos”, che di per sé è un ponte, un luogo attraverso cui si passa. Venendo a cose più concrete, dato lo stato allucinante delle strade, sia in Sicilia sia in Calabria, non capisco il senso di quest'opera immane in assenza di una rete stradale decente a monte e a valle».