«Nel ’50-51 cominciai a scrivere come un impazzito… leggere e scrivere era per me vivere» così lo scrittore calabrese Saverio Strati (Sant’Agata del Bianco 1924 - Scandicci 2014), nella lettera inviata nel marzo 2009 alla redazione del “Quotidiano della Calabria” in cui raccontava la sua vita e le sue opere e si appellava alla legge Bacchelli (poi riconosciutagli) per ricevere l’aiuto necessario a mitigare la sua disagiata condizione economica. Molti intellettuali, studiosi e docenti, tra i quali il compianto Nuccio Ordine, intervennero a favore dello scrittore che, dopo essere stato pubblicato da Mondadori sin dal volume di racconti “La Marchesina” (1956) e per i romanzi successivi, “La Teda” (1957), “Tibi e Tàscia” (1959), “Mani vuote” (1960), “Il codardo” (1970), “Noi lazzaroni” (1972), “Il selvaggio di Santa Venere” (1977, Premio Campiello), “Il diavolaro” (1979), “La conca degli Aranci” (1986), “L’uomo in fondo al pozzo” (1989), pur tradotto all’estero (in francese, tedesco, inglese, slovacco, spagnolo e persino in cinese) e apprezzato dalla critica letteraria, era divenuto invisibile in quanto non più ristampato. Perciò veramente meritoria è l’operazione dell’editore calabrese Rubbettino – un impegno sul campo cresciuto negli anni con le sue collane e la sua saggistica di respiro internazionale per fare e diffondere cultura dall’osservatorio Calabria – che con l’acquisizione dei diritti di tutti i testi, editi e inediti (grazie alla disponibilità del figlio di Strati, Giampaolo, e all’intermediazione della nipote Palma Comandè), ha nel suo piano editoriale la pubblicazione di tutto il corpus delle opere stratiane (compreso l’inedito “Tutta una vita”, l’ultimo suo romanzo respinto da Mondadori e la cui prefazione è firmata da Vito Teti, che già da docente dell’Università della Calabria aveva avviato un lavoro di riscoperta di Strati e altri letterati calabresi dimenticati): una collana, “Opere Di Saverio Strati” a lui dedicata (bello l’aspetto grafico delle copertine con fondo bianco essenziale e immagine-punctum stilizzata) per far rivivere quella parola-memoria pensata, scritta, stampata, che era vitale per Strati come punto fermo, obbligato e salvifico della sua esistenza.
Stare dentro la letteratura come strumento per capire la realtà era per Strati una necessità agognata da quando bambino nato da famiglia contadina e costretto dopo la scuola elementare a imparare il mestiere di muratore come il padre per provvedere ai bisogni della famiglia, percepiva forte il bisogno di leggere e di conoscere. La svolta avvenne nel 1945 a 21 anni, quando decise di rivolgersi allo zio d’America, fratello della madre, per un aiuto economico che gli assicurasse gli studi necessari a prendere in mano il suo destino. Così, cimentarsi con la frequentazione dei libri, e poi con gli studi liceali e universitari e quindi con la scrittura diventava un dovere morale. Dopo la maturità conseguita da esterno al liceo classico “Galluppi” di Catanzaro, gli studi alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Messina, nella città ariosa e piena di luce (come la descrive in “Il nodo”) gli aprivano il futuro, grazie all’incontro con uno degli studiosi che davano lustro alla fervida vita culturale peloritana: furono Giacomo Debenedetti e le sue lezioni su Verga e Svevo a essere la “teda”, la fiaccola letteraria che gli avrebbe fatto luce nel tempo del pensiero che si fa parola e nella ricerca della parola giusta da radicare dentro i territori dell’umano.
Lo riconobbe Debenedetti, al quale Strati fece timidamente leggere uno dei racconti poi riuniti sotto il titolo “La marchesina”, suo esordio letterario per Mondadori nel 1956. Sarebbe divenuto, Strati, cantore della Calabria, nella rappresentazione di quel mondo del Sud (ma anche di tutti i Sud del mondo), misterioso e magico, tenebroso e solare, superbo e terragno, desolato e meraviglioso, ancestrale e desideroso di progredire, per gettarvi luce, nonostante le tenebre, con la fiaccola alta, la teda, appunto, della scrittura. Presente sin da allora l’epica degli ultimi, e l’esperienza diretta dell’impresa umana più difficile: sopravvivere, come fanno i personaggi di tutti i suoi romanzi, in questo simili a quelli dei grandi romanzi europei ed americani, servi e padroni, pastori e muratori, uomini e donne di fatica, genitori e figli, adulti e bambini (“Tibi e Tàscia”, prefazione di Goffredo Fofi), chi resta e chi se ne va, rassegnati e insieme audaci a portare avanti il greve quotidiano, tra ingiustizie e prevaricazioni e autopunizioni.
Salvo emigrare (“Noi lazzaroni”, prefazione di Carmine Abate) ma scontando il fio di aver lasciato la propria terra per un altrove in cui sentirsi incompleti, in bilico (“Il nodo”, prefazione di Andrea Di Consoli) nelle crepe del presente tra vecchio e nuovo, tra radicamento e pulsioni di libertà, tra senso di inadeguatezza e desiderio del possibile.
Tutto scritto con una lingua che è la stessa carne dell’io stratiano, una lingua che anche quando si fa plurale, quando si apre all’esplorazione lessicale, conserva sempre un aspetto di onestà e di forza. Storie dove battono i due cuori di Strati, del contadino-muratore e dello scrittore che anche lontano, da Firenze alla Svizzera, radica gran parte dei personaggi dentro una Calabria bella e crudele, tra cieli luminosi e infiniti e altri neri di nubi, nelle ombre dei suoi boschi e delle sue montagne: un unico epico romanzo di stirpi segnate dal destino (spesso recitato, come in una tragedia greca, da cori dolenti di donne come in “La teda”, prefazione di Gioacchino Criaco) eppure speranzose di un mondo nuovo, determinate a resistere (“Il diavolaro”, prefazione di Luigi Tascone) perché c’è sempre il sole-teda ad ardere dopo la tempesta.
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