E’ lui, è Macondo. Il “paese felice” come tutte le utopie, il paese condannato, come tutte le utopie. Il paese raccontato, perché quando le storie che dormono dentro la memoria collettiva incontrano un cuore e una penna sensibili rinascono e devono essere raccontate ancora. Macondo è Eranova, e la sua storia s’intreccia alla storia del quinto centro siderurgico, una delle grandi bugie spacciate a una Calabria che chiedeva lavoro e dignità. Eranova nacque da un impeto di libertà, e un secolo dopo fu cancellato: una storia che contraddice almeno cento luoghi comuni sui calabresi e la loro “rassegnazione”. E le storie che sovvertono i cliché sono tra le preferite di Carmine Abate, lo scrittore crotonese di Carfizzi premio Campiello 2012, ma soprattutto autore amatissimo da una cerchia di lettori sempre più vasta. Da anni Abate costruisce il suo “vivere per addizione” letterario e culturale, contaminando le sue appartenenze, realizzando, romanzo su romanzo (oltre alle raccolte di racconti, le poesie, i saggi), un’identità multiculturale di “transfuga linguistico” che fa dialogare i mondi che attraversa e abita, dalla sua originaria comunità arbëreshë ai “germanesi”, la comunità di calabresi emigrati in Germania, al Trentino, dove lavora e vive. Oggi esce per Mondadori l’ultimo romanzo di Abate, “Un paese felice” (e l’anteprima nazionale sarà in Calabria, a San Ferdinando, oggi alle 18 nella sala consiliare). Una storia vera, potente, che riviviamo in quegli anni Settanta di cui ritroviamo fatti, personaggi (c’è anche Pasolini, allora molto vicino alla Calabria degli ultimi), colonne sonore, e uno spirito di battaglia che anima anche la comunità di Eranova, e i due protagonisti, gli studenti Lina e Lorenzo. È una storia d’amore, non solo tra due giovani: è anche amore per i luoghi, per la comunità, per la comunanza di destini. È una storia di passione civile, che vibra fortissima, e pure si armonizza alla natura sempre magica delle narrazioni di Abate, individuali e corali assieme. È un “noi” che vibra, anche linguisticamente, in un impasto mai così potente e armonioso: stavolta il dialetto che si combina all’italiano – ed è lingua d’espressione e d’appartenenza, non lingua di realismo o verisimiglianza – è quello reggino, a dimostrazione del certosino lavoro filologico che sta alla base dei romanzi di Abate. Filo conduttore è il capolavoro di Gabriel García Márquez, che il protagonista Lorenzo va leggendo, e le vicende, le parole di Macondo s’intrecciano alle vicende di Eranova, comunità che lotta per sopravvivere (e quante vicende conosciamo, attuali, di comunità in lotta contro “mostri” che le minacciano?). I suoi personaggi – la vecchia Mena, mastro Cenzo, il Petraro – sono archetipi favolosi, ma assieme compiutamente vivi e veri, facce e voci di quel “noi” che Abate ci fa sentire e vedere. Ne abbiamo parlato con lui. Affronti una storia vera, ma che pochi conoscono. E con un piglio da battaglia civile. Perché questa scelta, e la scelta di Eranova? «All’inizio non è stata una scelta consapevole. Semplicemente, sono rimasto stregato dal nome Eranova, che ho sentito per la prima volta circa sette anni fa mentre raccoglievo informazioni e storie sulla migrazione nella tendopoli di San Ferdinando. Ho scritto il romanzo “Le rughe del sorriso” (Mondadori, 2018), ma nel frattempo ho cominciato a interessarmi a Eranova, che continuava a intrigarmi per l’utopia racchiusa come una perla nel suo nome. All’inizio era solo un’intuizione, ma poi ho scoperto che il paese era stato fondato poco lontano dalla tendopoli di san Ferdinando quando un gruppo di massari e contadini si ribellarono al marchese Nunziante, e nel 1896 fondarono nel territorio di Gioia Tauro il paese, scegliendo appunto questo nome bellissimo, che era anche una sfida al marchese, come se gli dicessero, con piglio da battaglia civile e politica: “Noi ora daremo vita a un’era nuova, noi saremo liberi!”». Il tema forte di tutto il romanzo è infatti la libertà: «Una robba magica, calamitosa». E un valore che sovverte le narrazioni sulla Calabria rassegnata, ripiegata... «È soprattutto questo che fin dall’inizio m’ha interessato di Eranova: la voglia di libertà dei suoi fondatori, di ribellione ai potenti, che all’epoca e per tanti decenni ancora erano veri e propri feudatari e decidevano vita e morte dei loro sudditi: una parola che gli eranovesi giustamente odiavano. La Calabria che amo e racconto, e che emerge da questo e da altri miei romanzi, non è affatto rassegnata, non lo è nemmeno di fronte alla consapevolezza che i poteri forti e quelli violenti forse alla fine avranno la meglio, ma se ci si arrende prima di cominciare la lotta, allora non ci libereremo mai di loro». Incrociamo tutto di quegli anni che racconti: da Baglioni al caso Moro. Ma non c'è alcuna nostalgia, e anche questo è consapevole sovvertimento di cliché. Non c'è un eden perduto, ma un “noi” che si rifà ogni volta che una storia viene narrata. È il senso, anche, della scrittura? «La nostalgia, specialmente quella lamentosa, l’ho evitata fin dal mio primo libro uscito in tedesco nel 1984 (“Il muro dei muri”, ora negli Oscar Mondadori), perché blocca la vita delle persone. In questo libro più che mai vengono sovvertiti temi e toni, o affrontati da punti di vista nuovi, non di un solo io narrante, meno che mai da quella onnisciente dello scrittore, ma da più voci, singole e corali, da un “noi” che cambia di continuo tono e ritmo, a seconda di quello che narra. È una voce che mi intriga, che sentivo fin da bambino nei vicoli del mio paese, nelle botteghe degli scarpari, e che ho ritrovato parlando con gruppi di eranovesi superstiti. La sento così autentica, questa voce, così mia, che nell’audiolibro per Audible ho voluto essere io a leggere le pagine in cui il paese racconta, mentre il resto del libro è stato letto da un attore professionista (Alessio Talamo). Se poi è questo il senso della scrittura, non saprei dirlo: io racconto storie urgenti, a volte rimosse come questa, evitando il più possibile tutto ciò che è artificioso, superfluo, inautentico». Nume tutelare è Gabriel García Márquez: la storia di Macondo che il protagonista legge e rilegge s'intreccia con la storia di Eranova, anche quello paese voluto, in mezzo al nulla, paese costruito con caparbietà, paese che vuole essere felice. Ma il tuo non è realismo magico, pure se da quello prende il senso corale della comunità e certi incantamenti. La Calabria è tutta un po' Macondo, e destinata a cent'anni di solitudine? «Quando ho conosciuto la storia di Eranova, mi è venuto subito in mente Macondo: entrambi i villaggi nati alla fine dell’Ottocento, entrambi con un destino identico e grandi personaggi favolosi, epici. Entrambi felici, all’inizio, tant’è che l’epigrafe di Márquez che ho scelto per questo libro sembra scritto per Eranova: “Era veramente un paese felice, dove nessuno aveva più di trent’anni e dove non era morto nessuno”. Tra i due paesi c’è una sorprendente affinità nella fondazione (ma le fondazioni dei paesi sono spesso mitiche, lo è anche anche quella del mio paese, Carfizzi, fondato da un gruppo di profughi che scappano dall’Albania invasa dall’impero ottomano, alla ricerca della libertà in un paese straniero). Ma c’è pure una differenza sostanziale nella fine. E comunque non esiste una sola Calabria, ne esistono tante, e sicuramente c’è una Calabria-Macondo che vive e ha vissuto cent’anni, anzi mille anni di solitudine, costretta dai potenti di ogni epoca non solo alla solitudine, ma anche alla povertà, allo sfruttamento e poi alla fuga, all’emigrazione. Eranova ha provato a ribellarsi a tutto questo e, per un certo periodo, è stato davvero un paese felice, libero, dove la gente aveva una vita dignitosa e i contadini riuscivano a far studiare i figli, avevano agrumeti pregiati e uliveti, un mare e una spiaggia affollata di turisti». Infine la lingua, che ha una coloritura di dialetto molto particolare: stavolta hai scelto un dialetto che non è esattamente il tuo, è il reggino. Il "noi" collettivo parla questa lingua, e i personaggi della comunità: dialetto come lingua di appartenenza, e non di realismo. Che operazione stilistica è? «Questa è la mia cifra stilistica fin dal primo libro germanese: suoni e parole di lingue altre che s’impigliano nelle mie pagine e mi evocano le storie. La coloritura dialettale è in realtà la voce con cui gli eranovesi superstiti mi hanno raccontato le loro vicende più intime, più segrete, sforzandosi di parlarmi in italiano, ma con un ritmo tutto loro, musicale, bellissimo, trapuntato da singole parole dialettali che i miei lettori non calabresi capiranno in toto. Una lingua che io filtro tra le mie lingue, una lingua che reinvento. Proprio il fascino che esercita su di me questa lingua, che tu chiami giustamente “lingua di appartenenza”, ha fatto sì che “Un paese felice” diventasse una storia di voci, una diversa dalle altre. La prima è quella di Lina, la giovane protagonista del romanzo, ribelle e caparbia come i suoi antenati fondatori di Eranova, l’ultima è quella camaleontica del paese. E tenere insieme tutte queste voci affabulatorie, portatrici di storie vere o epiche (come quelle di mastro Cenzo, che viene da Morano Calabro, o del Petraro, che è originario di Stromboli) c’è l’io narrante: un giovane che, come me, all’inizio della storia aveva vent’anni, ascoltava Battisti e Rino Gaetano, odiava le ingiustizie e i prepotenti, lottava con Lina contro la follia colossale che stava per abbattersi su Eranova, e leggeva Márquez sulla spiaggia di Eranova. È lui che molti anni dopo, di fronte alla cattiva coscienza regionale e nazionale, che ha fatto di tutto per seppellire questa storia nell’oblio, si sarebbe ricordato di Eranova e avrebbe cercato con caparbietà di disseppelirne la memoria più profonda....». E con questo controincipit marqueziano, Carmine Abate ci porta dentro la sua nuova storia, perché ri-appartenga a tutti.