“Storia di Stella Fortuna che morì sette o forse otto volte” di Iuliet Grames (HarperCollins, traduzione Valeria Bastia) scrittrice americana del Connecticut con radici a Ievoli, piccolissima frazione di Feroleto Antico, in Calabria, esordiente nella narrativa, ma già affermata editor negli States, racconta una storia fatta da donne e di donne, con origini italiane, che ha conquistato i lettori americani. Da poco il libro è stato pubblicato in Italia. È una saga che attraversa l’Oceano, ma prima dello sbarco e della vita nel Nuovo Mondo narra miseria, condizioni di vita primitive e forme di patriarcato che svilivano la vita delle donne, nella Calabria d’inizio secolo scorso. Poi si racconta del sogno americano sullo sfondo della Seconda guerra mondiale e il vivere, non ancora integrati, in comunità immaginate, con un spirito tutto italiano, in questo caso calabrese, che è cosa ancora diversa.
“Stella Fortuna”, è il nome della nonna di Juliet Grames, una donna del popolo, bella, fiera, indomita che incarna la vita sottomessa delle eroiche donne che sopportarono partenze, sfortune, umiliazioni, in un’epoca infame nel Sud, di ricchezze e privilegi esagerati da una parte, e di umanità sfavorita, spolpata, dall’altra. È un romanzo bello e crudele “Stella Fortuna”, scritto guardando al paesaggio umano di una Calabria povera, sfruttata da latifondisti, prepotenti, malavitosi ma più di tutto oppressa da uno Stato nemico. La narrazione che segue, dopo l’arrivo nell’America che dà il pane, senza esagerare, si sofferma sull’accoglienza senza sinonimi, che si traduce nel termine esattamente contrario: «ostilità».
Il romanzo è ispirato alle vicende della famiglia di Juliette Grames: la mamma è nata in America, ma i nonni, calabresi, venivano da Ievoli di Feroleto Antico. Attraverso la vita della protagonista, “Stella Fortuna”, la nonna, la scrittrice ripercorre una vicenda di vita travagliata di una donna, con le complicazioni e le violenze che subì, per “l’ostinazione” di voler vivere in modo differente, rispetto alle convenzioni di comunità chiuse in gabbie mentali indistruttibili. Pur essendo americana di seconda generazione, Juliet Grames ha scritto una storia meridionale, con la stessa forza, la stessa “ossessione”, di chi è vicino alle cose raccontate, a dimostrazione che ci sono mondi marginali che non hanno confini, e che la buona letteratura non è solo scrivere ciò che vediamo, ma prima di tutto ciò che è dentro di noi. Ne abbiamo parlato con lei.
Juliet Grames, com’è nata l’idea di scrivere “Stella Fortuna”?
«Non lo posso dire con esattezza, perché convivo con l'idea di questo romanzo da almeno trent'anni. Però le radici calabresi erano la mia ossessione, per la strana vita di mia nonna, americana, ma nata in Calabria, nel 1920. La sua storia personale convalida davvero il vecchio adagio "la verità è più strana della fantasia", ma ho deciso di provare a fare un’opera di fantasia comunque».
Leggendo il romanzo mi sono venute in mente le storie di emigrazione raccontate nei romanzi di Gay Talese in “Ai figli dei figli” e da Helen Barolini, l’autrice di “Umbertina”. Storie diverse da “Stella Fortuna” ma con la Calabria delle partenze e dell’emigrazione al centro delle narrazioni. Forse è vero che le radici non si recidono mai, o forse c’è un Ulisse in ognuno, che cerca sempre di tornare alla sua Itaca, o forse le vicende dell’emigrazione sono così forti, e a volte così disumane, che meritano di non essere dimenticate nella società opulenta, ma declinante, dell’Occidente...
«Tutte queste cose, esattamente. Ho sempre pensato che la Calabria fosse la mia Itaca. Avevo appena ereditato la storia della lotta di mia nonna: settant'anni di tentativi di trovare una casa che lei amasse tanto quanto quella che era stata costretta a lasciare, in Calabria. Parte del motivo per cui ho scritto questo libro era provare di trovare, o ricreare, se non riuscivo a trovarla, la sua terra. La terra che l'aveva fatto la persona ostinata, divertente, oltraggiosa, tenace e coraggiosa che lei era. Pero sì, è vero, un altro ardente desiderio era rendere omaggio agli immigrati, cercare di catturare l'esperienza dei nostri antenati immigrati e, spero, umanizzarla per i lettori moderni. Penso che ricordare le dure condizioni in cui sono sopravvissuti i nostri antenati e le cose brutte che dovevano fare, o che sono state fatte loro, sia una parte importante per capire chi siamo grazie a loro, e per ricordare a noi stessi di essere compassionevoli con le persone che stanno lottando per superare le proprie condizioni di vita, partendo dai loro luoghi emarginati, anche facendo brutte scelte».
“Stella Fortuna” è anche storia di sopportazione, sfortuna, difficoltà, segreti inconfessabili, patriarcato.
«Certamente finì per essere una storia di estremi, anche se non era quello che in origine avevo deciso di scrivere. Ho iniziato volendo catturare una vita selvaggiamente insolita. Ma sì; con le mie ricerche ho capito in misura crescente i fattori che hanno plasmato quella vita insolita e in misura crescente il romanzo si è evoluto in un'invettiva contro il patriarcato. Non solo in nome delle tante donne che ho intervistato che hanno sopportato difficoltà che semplicemente non avrebbero dovuto avere, ma anche a nome degli uomini che ne hanno sofferto la rigidità. Perché veramente tutti soffrono quando c'è disuguaglianza, sia gli oppressori che gli oppressi».
Nel libro c’è anche un ritratto di famiglia dall’interno, come metafora di un’epoca in cui il mondo si rimescola e prende forme nuove, pur se restano le scorie del disagio, delle paure, delle disuguaglianze, delle disparità uomo donna.
«I guai da pignata si sapa sulu a cucchjiara cchi c’è vota, giusto? (ride). Il mix di vecchio e nuovo è affascinante per me. Questa generazione di cui sto scrivendo - i nostri nonni nati tra il 1900 e gli anni trenta - ha visto cose incredibili e terrificanti. Nel corso della mia ricerca ho avuto il privilegio di intervistare e in alcuni casi speciali stringere amicizie con novantenni nate in un virtuale feudalesimo, cresciute in paesi senza acqua corrente, strade, medici o soldi. Hanno una prospettiva così incredibile e tante lezioni da insegnarci sul duro lavoro, la resilienza e l'intraprendenza».
C’è anche nel romanzo il Sud d’Italia, eterno, immobile, distante, dimenticato, oppresso…
«Questo tema ossessiona la mia vita, quindi si è insinuato nel mio romanzo. Quando cercavo di fare una ricerca tradizionale su libri, sulla Calabria e il Sud, ho trovato, prima di tutto, molto poco da leggere, in inglese, o anche in italiano. Ciò che esisteva era perlopiù denigratorio: nel migliore dei casi addolorato per le condizioni di vita, nel peggiore apertamente al vetriolo. Non raffigurava la Calabria che sapevo doveva esistere, quella che mia nonna aveva tanto amato. Volevo superare le cose di cui parlano tutti quegli estranei: povertà e sfruttamento coloniale; crimine organizzato; sottosviluppo e abbandono dello Stato. Sapevo che non era tutta la storia, perché conoscevo mia nonna. Quindi ho continuato a scavare. E non sono rimasta delusa da quello che ho trovato. La Calabria ha una storia molto complicata, una storia di cui è difficile parlare».
Arrivederci e buona vita Juliet Grames. Letteratura meridionale di ritorno: esempio straordinario di emigrazione al contrario, che viene, anziché andare, anche se stiamo parlando solo di un libro.
L'articolo nell'edizione di oggi della Gazzetta del Sud
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