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Guardare al futuro con lucida "disperanza"

(foto di Salvatore Piermarini)

Nell’ultima settimana, polarizzata dal dibattito sull’esito delle elezioni regionali, ho avuto occasione di ritornare, nel confronto garbato e costruttivo con molte persone, su alcuni temi della mia riflessione e della mia ricerca.

Ammetto di essere stato commosso dai sentimenti di amarezza e dolore, di lucida preoccupazione per la Calabria espressi da tanti, che la amano profondamente. Da lungo tempo, praticamente da sempre, non faccio che occuparmi di aree interne, montagne, paesi abbandonati, margini, periferie, confini pensandoli come possibili centri per nuove comunità da immaginare e da inventare.

Non mi stanco di ripetere come la Calabria abbia bisogno di cura, di attenzione e di amore, ma anche di parole di verità, a volte dure, come si fa appunto con le persone che amiamo. Certo, un’analisi spassionata, sincera, dello “stato delle cose”, che non si nasconda dietro a facili retoriche o giustificazioni, sembra a volte rischiare di consegnarci alla disperazione, all’idea della totale inutilità del nostro operato, dell’indistinzione delle parti in gioco, coinvolte dallo stesso sterile e brutale gioco di interessi.

Ma sbaglieremmo, secondo me, a rinunciare, a cedere, a fuggire, a lasciare campo libero a chi vuole creare un deserto o rinchiudersi in luoghi impenetrabili. Capisco la disperazione, ma credo tuttavia che essa possa accompagnarsi a una forma lucida, non retorica, di speranza.

D’altronde la difficoltà di immaginare un futuro è una sensazione diffusa nella nostra epoca privata di quell’orizzonte dell’altrove temporale che ha caratterizzato l’esperienza di gran parte del secolo scorso. Il tramonto delle grandi utopie del Novecento sembra aver ceduto il passo a un crepuscolo in cui l’idea stessa di avvenire è stata smarrita. Il presente è divenuto egemonico e le formule che parlano di fine della storia, globalizzazione e leggi del mercato tendono a circoscrivere la realtà in un ambito su cui sembra impossibile intervenire. In questo presente, rapina costante e degrado dell’ambiente, effetti evidenti del cambiamento climatico, enormi squilibri della ricchezza, instabilità e crisi permanenti, tra gli altri fattori, concorrono quotidianamente a consegnarci alla fine della speranza, a un senso di “fine del mondo”.

Osservando questo impasse culturale, sono stato attratto da questa parola, “disperanza”, evidente ibrido di due opposti, come da un possibile spunto per tentare di immaginare una sorta di prospettiva di riapertura al futuro.

Il termine è stato usato e “codificato” in particolare da Álvaro Mutis, che lo ha utilizzato per descrivere lo sguardo che caratterizza il protagonista della trilogia di Maqroll il Gabbiere. Nelle opere del grande autore latinoamericano, esso ci suggerisce una nuova idea di rassegnazione attiva. Chi coltiva la disperanza non è disperato, ma ha fatto modernamente, dolorosamente i conti con le umane illusioni. Perviene così a una forma di superamento del disincanto, profondamente etica e lontana da ogni cinismo che, pur senza rinunciare a essi, non postula la necessaria realizzazione dei propri valori.

La “disperanza” è il carattere fondamentale che rende il protagonista di Mutis l’eroe moderno e contemporaneo che è. È la dolorosa cognizione della finitudine materiale dell’esperienza umana, che gli consente di non cadere né nella passività o nel nichilismo. Nel godimento di effimere gioie, egli ritrova sottili ragioni per continuare a vivere. In una dimensione di trance, evocata dal paesaggio, dalle canzoni, dall’amore, dal sogno intravede una dimensione perduta del sacro in cui passato, presente e futuro si ricongiungono; cerca di scoprire una fonte di felicità e di saggezza di fronte alla crudeltà e all’insensatezza del mondo reale.

Se, come Maqroll il Gabbiere, navighiamo tutti in un mare aperto, forse non è tardi per riprenderci la dignità di rifiutare la favola di un pensiero dominante, omologante i cui rischi di deculturazione e dissipazione furono intuiti da Corrado Alvaro già nel Dopoguerra. Secondo Geno Pampaloni, Alvaro era «un pessimista voglioso», «in realtà votato alla speranza». I suoi personaggi sono trascinati da una doppia corrente di nostalgia: amano, di amore disperato e deluso, il vecchio mondo contadino calabrese delle madri e il mondo moderno che li affascina e li respinge. Questa melanconia, che non si nasconde contrasti, doppiezze e ambiguità, che conosce la crisi di un mondo, può essere intesa in senso costruttivo come forma di dolorosa consapevolezza di sé e dolente “comprensione” degli altri; percezione lancinante della perdita di antiche certezze. Vicina alla disperanza di Mutis nel suo essere, al tempo stesso, sentimento di una disperata condizione di solitudine e desiderio incontrollabile di incontrare l’altro; senso del tempo che trascorre inesorabile e che, contemporaneamente, restituisce l’intensità e la bellezza dell’attimo.

Oggi che dalla nostra storia ci giungono segni che non possono più essere assunti in una visione lineare e ottimistica dello sviluppo, un sentimento come la disperanza può forse costituire una risorsa per affrontare le sfide del presente. Questo senza ridurre passato o presente a un paradiso o inferno. Sia il passato che il presente contengono, diversamente e insieme, paradisi e inferni, disperazione e speranza: il punto, forse, per poterci ancora immaginare come soggetti capaci di organizzare il futuro potrebbe essere allora riuscire a farle camminare insieme.

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