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La felicità? È un albero: la dolcezza di un mondo perduto nel romanzo di Carmine Abate

Carmine Abate

Un albero, che fruttifica “bottafichi”, i fioroni dalla polpa carnosa, dolcissimi. Sul finire di giugno, questo vecchio fico, rigoglioso, che somiglia al sicomoro di Gerico,nel senso che sembra spargere una sua antica religiosità, annuncia a Spillace, immaginario paese della vecchia Calabria arbëreshë, il momento più bello dell'anno: un'esplosione di sapori, profumi, calore. Non è di nessuno, quell'albero di fico cresciuto accanto ad una siepe di sambuco. Non si sapeva chi lo avesse piantato; forse il vento, o un uccello, aveva deposto un seme, in quello spiazzo. Uomini e donne del vicinato l'avevano accudito e adottato, e quindi era diventato l'albero di tutti. Carmine Abate, col nuovo romanzo “L'albero della fortuna” (edizioni Aboca) evoca il mondo malinconico e gioioso della sua infanzia nel villaggio di Spillace, che è poi la natia Carfizzi , il borgo che rappresenta una pietra miliare della sua geografia affettiva.

C'è una fedeltà, una specie di devozione, nel costante richiamo letterario dell'autore di origine arbëreshë al suo paese natale, piccolo, rannicchiato sulle colline dello Jonio, parte della cintura urbana degli albanesi d'Italia. Piacevolissimo, leggero, denso di richiami bucolici, ricordi d'infanzia, atmosfere magiche, capace di emozionare, “L'albero della fortuna” fa emergere il mondo semplice di una Calabria estrema, delle minoranze etnolinguistiche vissute a lungo appartate, in terre del Sud già per conto loro appartate. E' da questo piccolo mondo antico che Abate attinge tutta la poesia della sua nuova storia, in una successione di quadretti dai quali traspare la filosofia della sua esistenza: le corse per le campagne, le partite a calcio in strada, i segreti condivisi con gli inseparabili amici d'infanzia, il gusto dolce dei “bottafichi”, le passeggiate bucoliche a rubare frutta.

Il fico di Spillace, con il suo alone di luce rossastra attorno alla chioma ( così lo descrive lo scrittore) pareva un albero santo che si beava nel silenzio della piccola comunità calabro - albanese dal sapore agrodolce; terra che incanta Carminù, coprotagonista, con l'albero di fico, del romanzo. È storia di amicizia, di primi amori, di ammirazione sconfinata per il padre e la madre e di notti tormentate da incubi, dopo la partenza migrante del genitore per la Germania; perché nel paese dove abitano non c'è lavoro, e allora parti, tagli le radici, o vai a rubare.

L'armonia, la calma domestica, i piccoli piaceri della vita s'infrangono all'improvviso , quando il padre va, e si offusca la piccola felicità familiare che in realtà è fatta di niente. Il tema della partenza, caro ad Abate, degli strappi, delle segrete ferite, riappare nel libro di un autore che esplora i dettagli dell'esistenza, ma è pure consapevole che alla fine certi legami che si spezzano non sono null'altro, forse, che il rovescio della felicità. Umanità e natura diventano una sola categoria nella scrittura dolce, veloce, semplice di questo nuovo romanzo di Abate che impasta, ormai da tempo ( anche stavolta), italiano e arbëreshë, inventandosi una letteratura di sguardi sulla quotidianità, sui destini delle periferie, sulle emozioni della gente semplice, sulla forza rassicurante di chi ti ha generato, padre e madre, sulla calma e la pazienza di chi è obbligato all'emigrazione.

C'è anche la figura contemplativa di un novantenne, solitario, intriso di malinconia, ritornato a Spillace dopo una vita di emigrato: nuni Argentì, che all'ombra dell'albero dei bottafichi darà a Carminù, che lo ha adottato come nonno, le chiavi per decifrare un mondo che si va facendo sempre più ingarbugliato.

L'albero di fico diventa tempio di saggezza, con le parole di nuni Argentì.

Non si chiede mai ad uno scrittore se quello che scrive è biografia personale, ma “L'albero della fortuna” - ammette Abate - “è in un lavoro in parte autobiografico; è parte della mia storia di bambino che cresce nel rispetto della natura, in un territorio dai paesaggi esuberanti».

Il libro è pubblicato nella bella collana di romanzi “Il bosco degli scrittori” di Aboca, azienda italiana di prodotti naturali e biologici per la salute, con sede a Sansepolcro, la città di Piero della Francesca.

L'idea è stata di riunire alcuni dei più importanti romanzieri italiani in una collana dove ognuno approfondisce il proprio rapporto narrativo con le piante e il territorio, raccontando il mondo, a partire da un albero. Il primo albero, scelto per inaugurare la collana, è stato un olmo secolare friulano, “L'olmo grande”: titolo del romanzo di Gian Mario Villalta, poeta e scrittore nato a Visinale di Pasiano, provincia di Pordenone, ultimo superstite di un mondo contadino che ormai non esiste più.

Abate, nel “bosco degli scrittori” di Aboca, pianta l'albero della sua infanzia: il fico di Spillace, che non è di nessuno ed è di tutti, assalito, quando comincia a fruttificare, all'inizio dell'estate, da voracissime ghiandaie, uccelli dal piumaggio bruno-rosato, un incubo per Carminù, che deve lottare ogni mattina per non restare a bocca asciutta.

L'albero dei “bottafichi” è il guardiano di una quotidianità scomparsa, dove si rinnovavano piaceri, amarezze, sensazioni, strappi, tristezze, gioie, ancora non assaltate dalla falsa modernità: un mondo, dove ci si divertiva con piccole cose, si annusavano i profumi della campagna, si raccontava, si solidarizzava, e si capiva. Un libro che ci racconta che la felicità è possibile.

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