Il mio primo incontro con la morte vera, non quella raccontata nelle fiabe o nelle preghiere della sera, avvenne credo nell'estate del 1955. Avevo cinque anni e l'immagine di nonno Peppe, una figura imponente di “americano”, che aveva fatto una certa fortuna negli Stati Uniti e spesso mi portava con sé nella sua cantina, disteso in una bara al centro di una della casa, mostrava una quiete e un'immobilità straordinarie.
Fu anche il primo incontro con un'occasione di cordoglio collettivo, di cui ricordo dettagli e particolari, con le parole lamentose di nonna e mamma che ripercorrevano la vita del nonno - il suo attaccamento per la famiglia, le fatiche e i viaggi che aveva affrontato, l'amore per noi nipoti - e poi le preghiere, le visite, il via vai della gente.
Per mesi e per anni, avrei sentito mia madre ripetere un tenero e nostalgico «Padre mio bello». I morti, in fondo, non morivano mai, tornavano nei sogni, per chiedere qualcosa o per annunciare fortune e pericoli, nelle messe, per la festa dei morti, a Natale, quando si mangiava e si donava in loro memoria e in suffragio delle anime del purgatorio. Tornavano quando nelle rughe piene di gente si recitava il rosario o quando, alla sera della domenica, i fratelli della Congrega dedicavano il loro pensiero ai fratelli assenti.
Da quel periodo infantile, ogni anno, molte volte al mese, ho avuto la fortuna di ascoltare mia madre ripetere: «Come oggi è morto tuo nonno, come oggi tua nonna, come oggi il fratellino che non ho conosciuto, come oggi la zia casista» e tutto l'album di famiglia veniva costantemente rinverdito nel tempo, come se i defunti fossero ancora lì ad ascoltare, a esigere voce. A volte questa nenia materna, quel lutto che non passava mai e si rinnovava sempre, poteva provocarmi anche un certo sconforto; eppure col tempo ho capito il senso della verticalità delle storie, almeno nei piccoli paesi, dove nessuno muore fino a quando viene ricordato.
Negli anni, ho ingaggiato una tenace, testarda ed estenuante lotta contro la malattia e contro la morte delle persone care. Ogni morte l'ho vissuta anche come una mia morte. Non c'è funerale e lutto del paese a cui, quando mi trovo lì, non partecipi, proprio per questo mio essere “contro la morte” che mi fa sembrare di poter contribuire al ritorno alla vita dei familiari del defunto e della comunità, esposti al rischio di essere travolti da un evento che sento sempre in qualche modo ingiusto, sempre prematuro. Questo atteggiamento doppio rispetto alla morte mi è parso di ritrovare in seguito negli appunti, postumi, di Elias Canetti. “Il libro contro la morte”, con le sue riflessioni lontane da ogni rimozione moderna e contemporanea, sembra suggerire che la paura dei defunti, che potrebbero tornare come figure ostili e minacciose, abbia molto a che fare con la pratica umana di uccidere e di desiderare la morte dell'altro, con la consapevolezza di avere fatto poco o nulla per ostacolare la morte degli altri o tanto per causarla. La lunga, estenuante, tenace posizione di Canetti contro la morte è, esplicitamente, un atto di accusa nei confronti di quanti non hanno cura dei vivi, di un'umanità che, nel corso di una lunga storia, ha commesso o lasciato commettere eccidi, stragi, guerre. Canetti, che ha attraversato le guerre rimanendone fuori, opponendosi ad esse, ha compreso che «sono i morti che ci riportano alla vita, che ci consentono il ricordo, strappandoci alla ridondanza dei vivi» e che, per questo, bisogna prestare attenzione al loro lamento.
Un altro “libro dei morti”, anch'esso pubblicato postumo, che può venirci in aiuto per continuare questo ragionamento, è il “Libro rosso” di Jung. Qui le credenze tradizionali, non più liquidate come superstizioni o anche come elaborazioni culturali profonde comunque frutto d'invenzione, sembrano acquistare un altro senso, raccontare un'altra verità, esplorare altre dimensioni, un altro modo di trattare e di affrontare la paura dei defunti e della morte. Con l'esortazione di «volgersi ai morti, ascoltarne il lamento e prendersi amorevolmente cura di essi», il “Libro rosso” chiarisce la necessità di ascoltare il richiamo dei defunti ad essere riconosciuti per poter affermare le loro, e nostre, ragioni a favore della vita.
Non c'è alternativa: viviamo nell'epoca storica in cui il numero dei morti supera quello dei vivi. È questa massa umana, il peso della storia umana con cui dobbiamo venire a patti. I defunti interrogano i vivi con la loro inquietudine, con i problemi che sono loro sopravvissuti e sta a noi vederli, sentirli, instaurare con loro un dialogo, aprire loro la porta, ascoltare il loro lamento. E intanto occuparci dei rimasti, degli ammalati, di chi soffre, degli ultimi: solo così, credo, possiamo combattere la morte.
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