Sequenze in successione di paesaggi mobili, macchina a mano che si “addentra” nel cuore della terra e dei luoghi, riprese da fermo in piano-sequenza, fermo-immagini. Un montaggio serrato e, a tratti, soffocante. “Le Corbusier in Calabria”, documentario o reportage o “suite visiva” di Fabio Badolato e Jonny Costantino sul paesaggio calabrese impasta, mescola, sovrappone paesaggi di terra e di acqua, ombre e chiaroscuri, colori opachi e intensi, bellezze naturali e segni delle rovine prodotte dall'uomo, arbusti e ferri svolazzanti, erbe e scheletri nudi di cemento, piccoli paesi abbandonati o in abbandono che sembrano dormire e case vuote, sventrate, nate come rovine che non accolgono e non guardano nulla. Chi sta osservando questo scenario da dopo-catastrofe? Chi fissa e racconta, a volte fuggendo, a volte con sguardo fermo e sgomento, una fine immanente o già avvenuta? Un sopravvissuto? Un ultimo abitante che custodisce la memoria dei luoghi? La macchina da presa corre quasi a voler raffigurare una terra in fuga, inquieta, ansiosa, e poi indugia e descrive i resti e le reliquie della post-modernità, quasi a voler restituire alla natura la capacità di cancellare le rovine provocate dall'uomo.
Non siamo più, ormai è chiaro, dinnanzi alle rovine segno del passato, reperti identitari, memoria e ricordo, insegnamento o ammonimento, con una loro funzione pedagogica. Non siamo più davanti allo “sfaciume” provocato da una natura a volte felix, altre volte difficile. Siamo di fronte a una sorta di “day after”, a un dopo-catastrofe, e la Calabria pare condannata a diventare metafora delle rovine di un Occidente votato all'autodistruzione. Il mare e le montagne sono state trasformate in pattumiere, discariche, depositi di scorie radioattive. Delitto e suicidio. Perché le ecomafie, i traffici delle multinazionali, le 'ndranghete, le complicità degli uomini d'affari e di tanta politica non assolvono le popolazioni. Che, se non sono state complici, sono state distratte, indifferenti, apatiche. Che lamentano dopo quello che andava denunciato prima, per tempo.
Di fronte a questo scenario, forse, non possiamo che partire, ripartire, da un discorso di verità, dalla capacità di dire cose anche per noi scomode, dalla necessità di assumerci le nostre responsabilità, di non raccontarci favole.
Non è un viaggio comodo e scontato, allora, questo dei due artisti, in una Calabria esotica o leggendaria, favoloso Eden in terra; non è l'ennesima tentazione a disegnare cartoline patinate, ma nemmeno la consueta sterile denuncia delle devastazioni. È un viaggio breve (la sintesi di tanti viaggi) ma denso, condensato, essenziale, nelle viscere di questa terra, nelle sue profondità e nel suo cielo, nel suo sottoterra e nelle sue luminosità. Ne viene fuori una Calabria colta nelle sue sfumature, nei suoi contrasti. La Calabria ossimoro, terra di contraddizioni e di ambivalenze, delle identità e delle disidentità, che soltanto uno sguardo superficiale ti presenta in maniera granitica. La Calabria delle mille attese e delle mille delusioni, delle tante speranze e dei tanti disincanti, dove ogni cosa può diventare il suo contrario.
Le sequenze del film mi hanno rinnovato un sofferto senso dei luoghi, e anche il desiderio di uscire dalle retoriche, dalle immagini belle e confezionate, dalle riduzioni e dalle esasperazioni. Dai tempi del Grand Tour ai nostri giorni esistono immagini che sovraespongono o sottoespongono questa terra, ma di rado hanno avuto la capacità di cogliere differenze, luci ed ombre, Persefone e Demetra. Morte e rinascita, partenze e ritorni. Il film ci ricorda che sono mille i modi di guardare la Calabria - con amore e con rabbia, con affetto e disincanto, con indulgenza e ostilità - tutti legittimi, appartenenti alla storia e al vissuto di chi è partito e chi è rimasto, ma che hanno dignità d'attenzione soltanto quando, come in questo caso, le immagini ti catturano, t'inchiodano, ti provocano uno shock e non ti affidano certezze o nulla di scontato. Ho visto o rivisto o riguardato - colto e raccontato con un altro linguaggio, con immagini dure e poetiche - la “mia” Calabria fatta di sogni e di incubi, di verità e di visioni. Non so se siamo ancora in tempo e se la salvezza possa arrivare ancora da queste bellezze, rintracciate, indicate dai due registi con delicatezza e con parsimonia, con rispetto, quasi con timore. Non esistono ricette se non quelle che noi riusciremo a scrivere.
Bisogna provare a raccontare, come fanno Badolato e Costantino, con persuasione e senza retorica, con uno sguardo fisso e mobile, aperto e chiuso, lontano e vicino, da fuori e da dentro. C'è bisogno, forse, di una narrazione che sappia cogliere la verità dell'incubo e anche lo spazio del sogno.
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