A proposito del “carattere” dei calabresi, Corrado Alvaro ha modo di osservare in un racconto (La cavalla nera) che «Noi ci vogliamo dimenticare di quelli che eravamo, e raccontiamo delle favole quando parliamo di noi». Ma le bugie, più o meno innocenti, che si possono raccontare a parole si tradiscono in una lingua più profonda: quella del cibo e dei gesti connessi al consumo degli alimenti. Nell’incontro casuale in viaggio con una monaca, «quell’abbandonare la mano sul ginocchio col frutto nel pugno, il corpo disteso in una specie di sosta meridiana, la testa rovesciata, e quel modo lento e riflessivo di masticare che è tutto un fantasticare sulla vita» affiora ostinatamente come segno di un’identità culturale inoccultabile, che si ripresenta in maniera quasi misteriosa e impensata. Nelle società tradizionali, il legame tra territorio e cultura alimentare era forte. A mille microcosmi ambientali e produttivi corrispondevano spesso altrettanti microcosmi culinari. Bastava attraversare un fiume o percorrere pochi chilometri per trovare prodotti e usanze alimentari diverse. Di questa antica realtà attestano espressioni, ormai cariche di enfasi e retorica, come “cucine locali” o “cucina del territorio”. Le ricorren ti e colorite “ingiurie alimentari” ricordate da Vincenzo Padula a metà dell’Ottocento con cui ci si riferisce agli abitanti dei vari paesi confermano la varietà culinaria all’interno di una stessa area geografica e anche la stretta identificazione tra disponibilità e comportamenti alimentari e percezione di sé. In contesti di questo tipo, l’identità ha molto a che fare con il cibo e si traduce in una sorta di “etnocentrismo alimentare”. Il cibo può essere elemento che avvicina, ma anche che crea separazioni e distanze. Queste forme di identificazione – con un piatto, una pianta aromatica, una maniera di cucinare – sono il risultato di processi lunghi e complessi, segnati sia da privazioni che da disponibilità, da scelte e necessità. Il senso di appartenenza alimentare, il gusto, i desideri si formavano nell’infanzia, nell’ambito di un’iniziazione alla vita, di un’inculturazione alimentare in cui l’esperienza insegnava quali erano i cibi buoni, quali quelli salutari e quelli irraggiungibili. C’è un’enorme, sostanziale differenza tra questo tipo di apprendimento, legato alla pratica e alla tradizione orale, e le immagini odierne create dai media e dalla pubblicità alimentare, all’interno di un regime di abbondanza e di spreco. Oltre a imparare a conoscere gli alimenti, i bambini partecipavano della sacralità e della religiosità del cibo, scoprivano l’importanza del “mangiare insieme”. Mangiare fuori, all’aperto, in compagnia, andare a frutta, a caccia di uccelli, aspettare la “collura” con l’uovo quando si panificava e i dolci nei periodi festivi assumeva un carattere gioioso che oggi è difficile, se non impossibile, trasmettere alle nuove generazioni. I pasti principali e quelli festivi vedevano presenti tutti i membri della famiglia. Durante le feste, attraverso una ritualità alimentare, i bambini conoscevano le relazioni sociali, ma anche l’impor tanza del donare, il linguaggio delle offerte e dell’accoglienza. Anche i giocattoli erano spesso “giocattoli alimentari” e, per tali vie, si apprendeva quanto il cibo fosse prezioso, sacro, come andasse protetto e benedetto, perché poteva sempre venire a mancare. I tratti caratterizzanti delle cucine del territorio sono in realtà la socializzazione, l’unione, la comunione, la dimensione conviviale che si stabilisce tra le persone. La costante ricerca dei prodotti “locali” all’interno di disponibilità alimentari impensabili in passato, che nel periodo estivo si riflette anche nel trionfo di sagre e feste tradizionali o recenti, pur sospinta da interessi commerciali, sembra fondarsi sull’emergere di nuovi disagi alimentari. La nostalgia alimentare, come la nostalgia in genere, è un sentimento ambiguo. Da un lato allude a un tempo antico mai esistito, dall’altro si pone come critica delle odierne ideologie alimentari, di una “non cucina” frettolosa e omologata. Il mito e la retorica della cucina dei tanti “territori” ci parlano di un diverso bisogno di appaesamento e di presenza di coloro che vivono nella luce del crepuscolo di un antico mondo.