Saremo tutti agnelli, ad attendere il nostro luttuoso marzo? Una visione dolente e disillusa prende corpo nel nuovo romanzo di Mimmo Gangemi, narratore d’Aspromonte che racconta da tanto tempo la Calabria (e le Calabrie tutte: quella d’oltreoceano, quelle che si contrappongono tra loro, regni di caos eppure di virtù, di valori eppure d’orrori, di connivenze e di rivoluzioni).
“Marzo per gli agnelli” (appena uscito per Piemme e che sarà presentato oggi a Palazzo Campanella alle 17.30, nella sala Federica Monteleone) tocca i nodi profondi del nostro mondo moderno attraversato dall’arcaico, o forse – per taluni luoghi accade – l’opposto, un mondo arcaico venato di modernità («il benessere e i figli con le scuole»), dove si gioca comunque l’ antica “arte della guerra” (quella della ‘ndrangheta, che fa guerra, semplicemente, a tutto e a tutti e infiltra ogni cosa).
In una ragnatela ben spessa viene preso il protagonista, Giorgio Marro, ex avvocato penalista, un uomo spezzato, un «luttuante». Uno che non c’entra, forse. Ma leggendo le pagine di Mimmo Gangemi – i suoi dialoghi fatti per lo più di silenzi e gesti, i suoi personaggi scolpiti, i suoi scenari d’una terra di bellezza estrema ma diseredata, depredata e intristita da esseri umani il cui orizzonte etico è infimo (e non sono solo i “criminali” certificati) – viene da chiedersi: esiste davvero qualcuno che può chiamarsi fuori da un discorso sulla convivenza con le mafie, in tante parti del nostro Sud? E dove finisce la sopportazione, e dove comincia la resistenza?
Questi perenni interrogativi emergono dal romanzo dalla lingua sapida, le descrizioni folgoranti, il senso dell’azione a cui l’autore de “La signora di Ellis Island”, de “Il Giudice meschino” e di “Un acre odore di aglio” ci ha abituati da tempo. Ne abbiamo parlato con lui, e subito – inevitabilmente – la narrativa è diventata parte del discorso civile, tentativo di riflessione su mali antichi e nuovi dolori, sul riscatto e la riscossa possibili, con la stessa passione guerriera di sempre.
“Marzo per gli agnelli” è ancora un affondo nel cuore malato della Calabria, quell'intreccio di connivenze, omertà, pavidità che rende la 'ndrangheta così forte, così apparentemente invincibile. Perché raccontarla ancora?
«Non c’è un perché. Né occorre trovarlo, un perché. Avevo questa storia che mi cresceva dentro, che spingeva per essere raccontata, e ho seguito l’istinto. Un narratore non ha obbligo di adeguarsi all’opinione, sempre più diffusa, che certi mali bisogna tacerli, quasi che, muto tu e muto io, si riesca ad abbatterli. La conoscenza è il primo passo da cui partire per ricostruirsi migliori. Ma non è stato neanche questo a spingermi. Semplicemente, succede. In altri tempi ho avvertito la necessità di scrivere saghe familiari contadine, che erano storie di emancipazione e di riscatto sociale del popolo calabrese, e l’ho assecondata. Il dolce e l’amaro, insomma, senza vincoli e lasciando strada piana all’immaginazione».
Il tuo protagonista, l'avvocato Giorgio Marro, è uno sconfitto, uno che non ha più niente da perdere («a me non hanno più cosa prendere», dice), e questo lo rende davvero temibile e “invincibile”, per chi gioca a togliere e calpestare ogni cosa. Uno sconfitto che vince la sua battaglia, in qualche modo. E questo è un rovesciamento narrativo molto ardito e interessante...
«Purtroppo il coraggio appartiene solo a chi è disposto a immolarsi eroe o a chi è sciancato dalla vita come Giorgio Marro. È un’amara realtà in una terra dove troppo a lungo la mafia si è potuta esibire Stato Parallelo più che Antistato e dove talora la Giustizia ha arrancato».
La tua narrazione adombra un “prima” e un “ora”: una vecchia “onorata società”, criminale e profittatrice, ma con un ordine, un codice d'onore, per quanto mostruoso, contrapposta ai “nuovi” ancora più avidi e distruttivi. E il protagonista Giorgio subisce il fascino di quel “prima”, il cui emblema è il gigantesco zi' Masi (che infatti si prende tutto l'incipit ed è il vero co-protagonista). Pensi che questa fascinazione e questa narrazione di un “prima” siano reali, e non siano parte del problema ’ndrangheta?
«Tendo a distinguere tra onorata società e ’ndrangheta. Pur condannandole entrambe – per intenderci, se una è peste, l’altra è colera – dico che la prima s’era imposta regole da cui non derogare, che erano poi confini da non oltrepassare, per calcolo, non certo per bontà di cuore, e per mantenere il consenso, e che la seconda non ci ha badato più, orde sanguinarie senza freni e pronte a spremere succo da qualsiasi nefandezza. L’onorata società è scomparsa, lo stesso zi’ Masi ne è un surrogato, uno che si è riciclato e che si camuffa, si veste d’antico per ingannare. Marro ne subisce in qualche misura il fascino, se ne è infettato per essersi lordato nel difenderli da avvocato, lo ammette lui stesso. Marro però è in grado di opporre gli anticorpi. Tanti altri no, pur senza delinquere, sono pervasi da una mentalità intrisa di ’ndrangheta che è il terreno fertile dentro cui la malapianta attecchisce. Per abbattere la ’ndrangheta, più che gli arresti, occorre impegno, nelle scuole, dentro le famiglie, per costruire pensieri di civiltà che soppiantino la fascinazione».
Ci sono scorci di grande, ma inaccessibile bellezza, in questa «terra che non percorre sentieri di civiltà». E grandi doti di pietà umana, di cura, di amore. Anche dentro le nature più ferine e i personaggi più negativi (persino zi' Masi conosce la tenerezza, e il sorprendente Saso, il guardaspalle dalle mani grosse e il cervello fino sottovalutato da tutti – in questo molto simbolicamente calabrese – sa amare). Tu credi nel riscatto possibile di questa bellezza, di questa umanità, anche se ne racconti il rovescio?
«La bellezza non va ascritta a nostro merito, ci siamo capitati in mezzo. E la stiamo deturpando. Il riscatto è possibile. Di più anzi, è alla portata. Purché si stia accorti al recupero più che alla criminalizzazione, purché si ripristino valori sani da contrapporre all’aria stantia, purché si offrano possibilità di crescita umana e sociale piuttosto che proseguire nell’idea che la Calabria sia una terra perduta e irredimibile, su cui non sprecare pensieri né risorse. Gli stessi figli della ’ndrangheta non vanno considerati perduti: se, com’è successo, si dice loro che hanno solo lo sbocco ’ndrangheta, tarando qualsiasi iniziativa li veda coinvolti solo perché portano quel cognome scomodo, allora non se ne uscirà più, si perpetueranno. Peppino Impastato dovrebbe insegnare qualcosa».
I tuoi personaggi non credono alla Legge (la chiamano così, con la maiuscola): «La Legge nulla meritava, non garantiva, non s'impegnava sul serio». E preferiscono, ogni volta che possono, sbrigarsela da soli, dribblare le istituzioni, rivolgersi all'Antistato, all'Altra Legge. Possiamo comprenderli o li rappresentiamo solo per condannarli?
«Lo Stato ha perso credibilità nei lunghi decenni in cui ha “deciso” zone franche, dove non ingerire: alcune aree più calde, quali l’Aspromonte, la Locride, la Piana, le periferie di Reggio. E la mafia è stata lesta a occupare quegli spazi lasciati vuoti e a porgersi riferimento per la popolazione. Nonostante l’efficienza di dopo, ce ne vorrà per recuperare intera la credibilità. Anche da qui deriva il contorcersi su più fronti di alcuni personaggi, cosa che continua a verificarsi nella realtà di ogni giorno. C’è nel romanzo rappresentata la debolezza umana, spesso indotta da retaggi antichi difficili da rimuovere».
Non c'è redenzione né salvezza per nessuno, nel tuo universo narrativo. Siamo tutti agnelli che aspettano l'inevitabile marzo?
«È vero. Credo sia successo perché ho scritto il romanzo in un periodo in cui ero fortemente critico nei confronti della Giustizia, da sentire, me e i calabresi tutti, agnelli sacrificali. Registravo paure, opposte e speculari. Oggi che qualcosa sta cambiando, con autorevoli personaggi che hanno ammonito sull’innocenza oltraggiata, sarei meno drastico. Ma quella era l’ispirazione del momento».
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