Le immagini del disastro di Valencia e quelle (fortunatamente) meno drammatiche arrivate due settimane fa dell’hinterland lametino hanno riportato sotto i riflettori una questione ancora troppo sottovalutata. Il riferimento è alla difesa del territorio e al contenimento del dissesto idrogeologico. Questione centrale in una Calabria «sfasciume pendulo sul mare» (la definizione fu coniata dal meridionalista Giustino Fortunato), eppure mai risolta definitivamente per molteplici motivazioni. La questione dello sfasciume territoriale è ulteriormente aggravata dal mutamento climatico che produce “eventi estremi” con sempre maggiore frequenza e intensità.
Non è un problema di fondi che mancano, ma probabilmente di una reale organizzazione su come spenderli. Già, perché nella legge di Bilancio 2023 sono stati stanziati per la Calabria ben 440 milioni da spendere in un arco temporale ricompreso fino al 2026. Il paradosso, però, è che a gestire questi soldi non è la struttura del commissario straordinario per la mitigazione del rischio idrogeologico in Calabria - guidata formalmente dal governatore Roberto Occhiuto e i cui poteri sono delegati ad un soggetto attuatore nella persona di Giuseppe Nardi e capace di far registrare pure buone performance - ma le strutture della Regione.
In un ginepraio di deleghe, finora è toccato a Calabria Verde realizzare gli interventi inseriti nel Piano attuativo di forestazione approvato con la delibera di Giunta 145/2023. Nel 2023, sui 50 milioni a disposizione dalla legge di Bilancio per quell’anno specifico, sono stati portati a termine interventi nell'ambito della prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico ed incendi boschivi per circa 35 milioni di euro attraverso 30 progetti sull’intero territorio regionale. La differenza per circa 15 milioni è stata assegnata ai Consorzi di bonifica. Altri lavori in programma per il 2024 si stanno portando a conclusione, tuttavia è evidente che ancora ciò non basta per dirsi al sicuro. E la “confusione” che regna su chi deve agire non aiuta di certo.
I dati dell’Ispra Secondo gli ultimi emessi dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, «su una superficie nazionale di 302.068 chilometri quadrati, il 18,4% è mappato nelle classi a maggiore pericolosità per frane e alluvioni (55.609 chilometri quadrati). Degli oltre 213 mila beni architettonici, monumentali e archeologici presenti in Italia, quelli potenzialmente soggetti a fenomeni franosi nelle aree a pericolosità elevata sono oltre 12mila; raggiungono le 38.000 unità se si considerano anche quelli ubicati in aree a minore pericolosità».
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